Il libro bolañiano dei morti
Come la sceneggiatura di un film di Quentin Tarantino. Divisa in tre parti, in capitoli: “Prima della pandemia (gennaio e febbraio)”, “Durante la pandemia (marzo-aprile-Maggio)” e “Dopo la pandemia (giugno luglio agosto settembre)”. Questa la sequenza narrativa de Il libro bolañiano dei morti: esercizi di ego dissoluzione (Milieu edizioni 2020) in cui l’autore, Piero Cipriano, psichiatra basagliano e psico-farmacologo critico, ci racconta e si racconta ai tempi del Covid19. Quando il virus irrompe con la morte sulla scena globale e ci trova impegnati in una vita iperattiva e impreparati all’idea che non si muore perché ci si ammala ma che ci si ammala perché si deve morire. L’autore ci accompagna nel suo girone professionale, il reparto di psichiatria di un ospedale, attraverso un riferimento cinematografico: “ Negli ultimi tempi, in effetti, mi capita di vedere molti ricoverati come se fossero degli dei caduti o venuti apposta nel buco-nero-reparto-psichiatrico come in missione, per guarirmi, per svegliarmi, come nel film di Michael Cimino Sunchaer, il cui sedicenne navajo patricida rapisce il chirurgo per portarlo su una montagna mistica e aprirgli gli occhi”.
Perché la follia è divina, così in cielo come in terra? Forse se lo domanda ingenuamente il lettore: umano, troppo umano per spiccare il volo oltre le grate di una confortevole esistenza razionale. Impossibile non fare riferimento a Qualcuno volò sul nido del cuculo diretto da Miloš Forman e ispirato all’omonimo libro di Ken Kesey in cui Randle Patrick McMurphy (Jack Nicholson), ricoverato in un manicomio, conduce gli altri degenti in un percorso verso la libertà. Piero Cipriano indaga quel kolossal chiamato Vita, nel momento in cui il nostro mondo, uno degli infiniti mondi possibili, sta collassando e con lui la nostra esistenza. E lo fa con la sensibilità di chi conosce il linguaggio della poesia. In particolare di Roberto Bolaño che ispira il titolo del libro. Quella dello psichiatra-scrittore come quella del poeta cileno è una letteratura labirintica che naturalmente deve moltissimo a Rayuela,
a Borges e alla tradizione borgesiana maturata in Sud America negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Cipriano mette in luce un’umanità dimentica della sua condizione di organismo perituro: una coscienza che la pandemia riporta a galla lasciandoci spiazzati. “Eravamo convinti che la medicina fosse magnifica e progressiva, religione del nostro tempo, quando all’improvviso ci ha mostrato la sua debolezza. Ora siamo corpi. Corpi confinati in casa. Eravamo i padroni della terra, ora siamo tornati a essere abitanti impauriti nelle caverne”, afferma lo psichiatra. Il racconto dei giorni non giorni, delle relazioni con i pazienti e con i familiari s’intreccia alla lettura critica degli avvenimenti recenti, delle scelte politiche, della storia del pensiero filosofico, letterario, scientifico. Il libro bolañiano dei morti è per Pierpaolo Capovilla, autore della prefazione, un lungo e fitto pensiero oscuro. È un presente che incombe sul futuro. Forse impazziremo tutti quanti? «Non penso che il virus che si è autoproclamato re del mondo, abbia fatto solo dei danni al nostro pianetino – riflette Cipriano – A questo consorzio umano che, dall’ultima guerra planetaria, s’era dimenticato di essere al mondo per morire. Ci sono i pro e i contro. Il bianco e il nero. C’è sempre del buono, anche nei film dell’orrore».