A caro prezzo Vol.1
Di come la storia tenda ciclicamente a ripetersi, di come determinati fenomeni si declinino con le dovute differenze dovute allo scorrere del tempo ma, di fatto, rispondano a logiche come minimo similari tra loro, sono testimoni opere a carattere storico, siano esse libri, film o, nel caso della presente recensione, fumetti che riprendano episodi del passato, più o meno lontano, e ne portino alla luce quegli aspetti che li rendono profondamente attuali per meglio comprendere la situazione contemporanea. Episodi spesso dimenticati anche se vicini a noi, sia a livello temporale, sia a livello geografico, sia a livello di significato. Questa è l’operazione che fa il fumettista francese Baru, al secolo Hervè Barulea, con questo suo Bella Ciao, il primo volume di una trilogia, detta A caro prezzo, in cui racconta un’epopea avvenuta letteralmente l’altro ieri ma che tendiamo, un po’ perché non se ne parla ma anche perchè è scomodo parlarne, a dimenticare: la storia dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati in Francia.
Una storia che parte con un episodio doloroso, una di quelle storiacce che avrebbero un grosso eco mediatico al giorno d’oggi ma che ci aspetteremmo di veder succedere lontano dalla civilissima Unione Europea: il massacro di Aigues Mortes. Nel 1893, una folla di operai stagionali francesi, fomentata da quelle che oggi chiameremmo fake news a scopo elettorale, e dall’alcool generosamente ingollato per affrontare le tremende condizioni lavorative, hanno massacrato un gruppo di immigrati italiani, per lo più di origine piemontese, attaccati con ferocia nonostante fossero scortati dalla polizia francese. L’episodio è solo l’inizio di una lunga narrazione che ha per oggetto la storia di una famiglia di immigrati italiani, Baru stesso è originario del nostro paese, e della loro vita, spesso difficile, all’insegna della ricerca di una vita dignitosa, tra lavoro e un vivere le proprie tradizioni che è più un modo di combattere la mancanza di casa che una battaglia culturale. Perché chi ha da fare, chi deve mettere insieme il pranzo con la cena, chi si spacca la schiena tutto il giorno e non ha tempo per concetti teorici e fumosi come lo scontro di civiltà.
Come non ne hanno tempo i personaggi di Baru, sempre profondamente immersi in una vita fatta di problemi concreti, di esigenze che poco hanno a che vedere con l’ideologia; emblematica in tal senso la scena di una madre che impedisce al figlio, di padre comunista, di buttare una camicia nera perché non importa se è da fascista, è una bella camicia nuova e per tanto non si butta. Una scena che ben rappresenta la tenerezza ruvida della narrazione di Baru, che non si perde in melodrammi o idealizzazioni ma restituisce al lettore una realtà spesso ingiusta, sempre brutale ma profondamente autentica, di quella verità necessaria quando si fa una fiction che vuole parlare di Storia con la S maiuscola. Ed è questo che fa Baru, mette il lettore di fronte a una realtà fatta di speranze ed entusiasmi che si trovano nelle piccole cose. Nel mare, nel cinema, nel gioco. Una realtà dove anche solo sprecare con leggerezza una risorsa che noi diamo per scontato può essere fonte di sonore incazzature. Baru racconta la la vita per com’è, che piaccia o meno, senza mai addolcire la pillola né lasciarsi andare a un facile compiacimento. E ce ne fossero, che raccontano così.