Le confessioni del brigadiere Maione
Intervista ad Antonio Milo, coprotagonista del Commissario Ricciardi
Il commissario Ricciardi, per la regia di Alessandro D’Alatri, è una fiction Rai che ha aperto il 2021 all’insegna di un grande successo. Protagonista è il personaggio omonimo, nato dalla penna di Maurizio de Giovanni eche sullo schermo è interpretato da Lino Guanciale, un poliziotto che nella Napoli degli anni Trenta, risolve casi criminali fidando, oltre che nelle proprie capacità deduttive e razionali, in un paticolare dono che gli consente di captare per via medianica le ultime parolepronunciate dalle vittime di delitti. Ad affiancarlo nella soluzione degli intrighi, il brigadiere Maione, al quale presta volto e carattere Antonio Milo, un attore di lungo corso che si è equamente diviso tra teatro, cinema e fiction. E che ci ha raccontato due o tre cose che sa di sé…
Antonio, questa serie di D’Alatri ha fatto veramente il botto. Mettiamo tu debba spiegare a un profano totale, come me, qual è il segreto, la fortuna, la pietra d’angolo del Commissario Ricciardi…
Beh, direi le storie dei romanzi d’origine, che sono ben scritte, da Maurizio de Giovanni, ancor prima di diventare immagini. Ma soprattutto l’empatia, che è il comune denominatore di tutti i personaggi, della serie e ovviamente anche dei libri. Fanno sì che chi legge prima e guarda la serie dopo, venga preso per mano e portato dentro il racconto.
Tu li conoscevi già, i libri di de Giovanni?
Sì, avevo iniziato a leggerli una decina di anni fa. Per cui, partivo da una posizione di lettore. Ovviamente, essendo un attore, avevo già adocchiato in qualche modo, il personaggio del brigadiere Maione. Però, avevo letto i libri in tempi non sospetti e non potevo immaginare che a distanza di dieci anni mi sarei ritrovato a interpretare proprio Maione.
Al di là delle necessità degli adattamenti, si è riusciti quindi a mantenere lo spirito delle pagine di de Giovanni?
Sì, sì, credo che l’operazione sia riuscita, anche perché si è mantenuta una certa fedeltà, fin dove era possibile, perché quando fai una trasposizione, il “tradimento” è implicito. Sai, pagine e pagine che si scrivono per un pensiero, o per descrivere un personaggio, quando vai a tradurle in immagine, diventano tutta questione di un’inuadratura, di uno sguardo… piuttosto che una battuta, una frase…
Cioè, un gioco riassuntivo, interpretativo…
Sì, appunto. Non può essere la stesa cosa: ma che si sia mantenuta una buona fedeltà, ci è stato riconosciuto dai lettori stessi di de Giovanni, che erano lo zoccolo duro che temevamo di più. Ma proprio da loro sono arrivate critiche positive in questo senso, il che ci ha reso molto felici. Alessandro D’Alatri, il regista, credo abbia sempre tenuto molto conto del punto di vista dei lettori. Anche scegliendo degli attori che, come i protagonisti dei romanzi, avessero una capacità empatica nell’interpretazione. Lo stesso De Giovanni ha fatto pubblicamente i complimenti ad Alessandro, dunque…
D’Alatri è un bravo regista, tra l’altro…
Ha vinto David di Donatello, Nastri d’Argento. È uno che èpassato anche attraverso la pubblicità e ha inventato gli slogan più importanti degli ultimi vent’anni.
Il tuo personaggio, il brigadiere Maione, annusando un po’ in giro, mi pare di capire che abbia incontrato addirittura maggiore simpatia del protagonista. Anche la tua personalità, la tua presenza fisica, forse hanno contato in questo, no? Tu Maione come lo descrivi?
Maione è sicuramente uno che vorresti per amico, nel senso che è uno affidabile, è un poliziotto che fa il poliziotto perché ci crede, crede nella famiglia, nell’onore della propria famiglia, nonostante abbia avuto un lutto devastante, perché ha perso il figlio, amazzato, quindi ha anche un certo senso di colpa. Maione, però, vede il bicchiere mezzo pieno, capisce che c’è ancora della vita da vivere. Questo grazie anche all’intervento del commissario Ricciardi, che con il suo fatto…
Il fatto è il “potere” di Ricciardi…
Sì, perché lui ha questa facoltà arcana di vedere i morti ammazzati che gli dicono l’ultima frase che hanno pronunciato prima di morire. In base a queste frasi, si cercano di sbrogliare le matasse dei delitti. E Ricciardi porta l’ultimo saluto del figlio a Maione, dandogli in qualche modo la possibilità di elaborare il lutto e legandolo a doppio filo a sé. Maione, nonostante l’epoca, perché siamo negli anni Trenta, è un uomo moderno, io lo vedo come tale, sostanzialmente.
Un personaggio simpatico, insomma…
Sì, sì, che ha anche delle note di commedia, perché è in rapporto con un informatore, un “femminiello”, detto “Bambinella”… Ci sono questi elementi di alleggerimento della serie. Maione è un pcarattere che ha molte frecce al suo arco, al quale il pubblico ha voluto bene perché gli ha fatto vivere diverse emozioni. Anche come interpretazione, per me, è stata una continua chicane, perché all’interno della stessa scena, si parte dal drammatico e si approda spesso nel brillante. E forse il pubblico ha apprezzato anche questo.
Dando una scorsa alla tua filmografia o fictiongrafia, si nota il ricorrere di molti lavori a carattere, diciamo, poliziesco. Cominci con La squadra, poi fai Distretto di Polizia, poi Joe Petrosimo, Montalbano, Maltese, quello con Kim Rossi Stuart. Hai fatto soprattutto il primo Gomorra, con Stefano Sollima… cioè, ne hai fatti molti. Che spiegazione dai del fenomeno, dall’interno? Perché l’intrigo noir, poliziesco tira, nella fiction?
La spiegazione che io mi sono dato è che la figura del poliziotto è la figura dell’eroe per eccellenza. L’eroe che più abbiamo vicino, senza pensare a Superman, che vola o che ha i super poteri. Un eroe normale, del quotidiano. Quindi, è una figura che non tramonterà mai, perché ci dà la convinzione che il bene vince sul male. Quindi è per questa ragione che il poliziesco funziona. La gente si appassiona a un simile archetipo. Poi, parliamoci chiaro, anche se vuoi presentare un progetto, se vai con un poliziesco, oggi hai una marcia in più…
Il tuo rapporto con il cinema: leggo che cominci con Nanni Moretti, in Caro dario. Corretto?
No, io sono sempre costretto a correggere questa notizia. Io inizio col teatro…
Sì, ok, ma la prima cosa al cinema fu Moretti?
No, fu I cavalieri che fecero l’impresa, di Avati. Ti spiego l’arcano di Caro diario: fu un’esperienza teatrale, in realtà, in cui Nanni, che tra l’altro per la prima volta si cimentava col teatro, fece un esperimento usando dei pezzi di sceneggiatura di Caro diario che non erano stati inseriti nel suo film. Allestimmo questo spettacolo, con me, Silvio Orlando, Rocco Papaleo.
Tu sei nato nel teatro…
Nel teatro, sì. Ho iniziato nel 1990, quando le serie tv in Italia ancora non esistevano. Vivevo del teatro. Poi, dal Duemila è avvenuta la svolta, quando è decollata la fiction. E quindi per me, come per altri miei colleghi, si è aperta la possibilità di un nuovo sbocco lavorativo.
Nel periodo in cui hai iniziato, col teatro si campava?
In realtà, quando io ho iniziato, era difficile entrare. Io sono di Napoli, poi trasferito a Roma. Migliaia di provini, non ti dico. Però, poi, quando si cominciava a lavorare, in qualche modo si seguiva anche un carro. Perché c’era il regista che lavorava sempre con gli stessi attori; col teatro iniziavi a lavorare a ottobre e finivi a maggio, avevi un mesetto di libertà, poi si attaccava di solito con l’estiva. E le estive duravano quaranta date. Era una realtà totalmente diversa da quella attuale, Covid a parte. Oggi una turnée ha poche date ed è quindi diventato difficile sostentarsi con il solo teatro. Mentre all’epoca io ci campavo, perché lavoravo praticamente tutto l’anno. Da ottobre ero in turnée e a casa ci tornavo di rado. Le estive, tra l’altro, le facevi in teatri tipo il Teatro di Taormina, a Tindari… c’erano una serie di teatri straordinari, per non dire dei Festival: Borgio Verezzi, Spoleto… C’erano più possibilità, di lavorare e di sostentarsi, col teatro. E soprattutto, quando ho iniziato io, si facevano spettacoli con più attori. Feci uno spettacolo che si chiamava Masaniello, per la regia di Armando Pugliese, in cui eravamo una ventina, una trentina di attori.
Hai lavorato molto con Pugliese…
Sì, molti anni. Devo ad Armando anche la mia formazione, perché io ho studiato, ho fatto una scuola di teatro, ma la vera scuola è stata quella sulle tavole del palcoscenico. Lavorando.
Nel periodo in cui facevi teatro, non avevi la “tentazione” del cinema?
L’avevo la “tentazione”, ma allora, negli anni Novanta, di cinema non se ne faceva molto e soprattutto la qualità dei film era quella che era. Non era facile, tra l’altro, mi è stato più facile entrare a fare teatro
Invece si è poi aperta l’opportunità della fiction. Tu in tv hai lavorato moltissimo, a partire dal Duemila e quasi ogni anno hai fatto qualcosa. Quali sono state le tappe fondamentali?
Beh, Cefalonia nel 2005, di Riccardo Milani, ha costituito una svolta, dato che prima avevo fatto dei piccoli ruoli, dei piccoli protagonisti di puntata. Da Cefalonia si inizia a fare un passo in più, con un ruolo più importante, che mi ha dato la possibilità di espriemere le mie capacità, apprezzate dal produttore che mi ha poi voluto subito dopo in Gente di mare, una lunga serialità: se non sbaglio, abbiamo fatto tre stagioni. Da lì ho sempre manteuto determinati tipo di ruoli, primari o da comprimario. Un altro punto di svolta è stato con Gianfranco Albano quando ho fatto I figli della luna, con Lunetta Savino e anche lì ero un coprotagonista.
Anche Gomorra è stato importante…
Certo, anche perché Gomorra ha avuto una svolta di tipo internazionale, è stato venduto in tutto in tutto il mondo. Io e Marco D’Amore aprivamo la prima puntata: ci definirono una coppia “alla Tarantino”, tipo Pulp Fiction. E ho incontrato in quella circostanza un grande regista come Stefano Sollima. Più di recente, c’è stato L’amica geniale di Costanzo, che ha continuato il filone delle serie internazionali. Ecco, perché va anche detto che il panorama delle serie italiane sta cambiando sensibilmente.
Te lo avrei domandato: la qualità delle serie italiane, di certe serie, si sta elevando, per rispondere a un mercato internazionale, non più soltanto indigeno…
Sì, assolutamente: Il commissario Ricciardi ne è anche la prova. E Maione, continuando il discorso dei punti di svolta, è il nuovo personaggio che mi ha dato la possibilità di esprimere al meglio, in maniera totale, un protagonista a tutti gli effetti.
Recentemente hai interpretato anche Natale in casa Cupiello, del quale si è parlato molto: chi ne ha scritto bene e chi è stato più critico. Dall’interno, che cosa puoi dire di questa esperienza con De Angelis?
Per me è stata una straordinaria esperienza, nel senso che mi sono trovato per le mani un tesoro di testo, quello di Natale in casa Cupiello che, soprattutto per noi napoletani, è un’opera di culto, che esula dal valore artistico-teatrale: per noi è qualcosa in più, perché il Natale in casa, per noi napoletani, oltre agli struffoli di mammà, era di rito la visione di Natale in casa Cupiello tutti quanti inieme. Quindi, esiste questo legame particolare. Forse il motivo per il quale qualcuno ha storto il naso sull’operazione. Che, per quanto mi riguarda, è stata un’operazione riuscita e generosa, anche moderna, se vuoi: mettere in scena Eduardo, oggi, è importante, per restituirgli l’identità di autore europeo. Quindi, dobbiamo, e questo lo dico anche da napoletano, distaccarci un po’ da quella che è l’immagine che abbiamo di Eduardo, come attore, e far camminare le sue opere sulle proprie gambe, dando a chiunque la possibilità di interpretarle e di offrirne dei punti di vista che possono essere diversi: una grande opera è tale perché ha più chiavi di lettura, più piani di lettura. Poi, per carità, possono piacere o non piacere, perché il nostro lavoro passa sempre per il giudizio degli altri ed è giusto che sia così. Però è anche giusto dare la possibilità a un grande autore di viaggiare, un po’ come Shakespeare: non possiamo dire che Shakespeare lo deve fare solo chi è londinese, laureato alla Royal Accademy…
Certo, sono opere di valore universale…
Si è discusso che Lucariello lo interpretasse un attore, seppur straordinario, romano e non napoletano, al di là delle scelte poi sul testo. E queste critiche non mi trovano affatto d’accordo. Un autore deve essere di tutti. Come l’opera, poi, è di tutti.
Torniamo a Ricciardi: ambientato a Napoli ma una Napoli che non è la solita Napoli oleografica. Ed è anche contestualizzata in un periodo storico come gli anni Trenta… Che tipo di immagine viene fuori, di Napoli, dalla serie?
Una Napoli straordinariamente “di tendenza”, come si direbbe oggi, glamour. In un periodo storico che non è mai stato raccontato. Napoli viene spesso raccontata, vedi Gomorra, vedi L’amica geniale, dove il tema era la difficoltà di una donna per emergere da un certo ceto sociale… si è sempre raccontata, Napoli, con le Quattro giornate. Invece gli anni Trenta, che furono un periodo straordinariamente bello, perché spensierato, sull’onda della Belle Époque, dello stile Liberty, e non sono mai stati raccontati. Una Napoli inedita, spensierata, forse troppo: perché troppa spensieratezza ha poi portato agli eventi tragici, devastanti che vennero in seguito. Anche i miei nonni, per dire, non mi hanno mai raccontato quella fase lì, il passato ci veniva sempre raccontato con i tedeschi, con la guerra, la sofferenza, la fame. Quindi, quella che è stata messa in scena in Ricciardi è una Napoli nuova. In quel periodo , si andava alla ricerca della bellezza, dell’estetica. Anche i costumi che abbiamo usato, erano bellissimi: sulla scena io già li vedevo e rimanevo rapito dalla loro bellezza. Ma anche i costumi degli uomini, pur se appartenevano a un ceto sociale più basso, non erano mai sciatti. Il capello sempre a posto, sempre tirato, le barbe in ordine, pochi baffi. Ripeto: era un periodo in cui c’era un occhio di riguardo all’estetica. Si parla di una Napoli capitale… Bellezza che ha poi portato al vuoto: e quando c’è il vuoto, non c’è il pensiero. E quando non c’è il pensiero, non c’è la capacità di analizzare in maniera critica gli eventi.
Ricciardi, dunque, continua…
L’altro giorno la dottoressa Ammirati, la direttrice di Rai Fiction, ha annunciato la seconda serie. Del resto, ci sono altri sei libri ancora da esplorare, quindi la materia prima c’è.
E i tuoi progetti immediati?
Ho appena finito le riprese di un film per il cinema, con la regia di Sergio Rubini, sui fratelli De Filippo. In cui si racconta il loro inizio, come è nato il trio. Anche qui, mi sono trovato a fare un viaggio nel tempo pazzesco. Io interpreto il ruolo del loro impresario, Aulicino, che era impresario di Totò e che ha lanciato i fratelli De Filippo