Siberia
2021
Siberia è un film del 2021, diretto da Abel Ferrara.
Immaginate una nana tutta nuda su una sedia a rotelle che avanza verso di voi in una grotta buia, lei sorride e vi ripete una frase a cui non riuscireste a dar senso neanche sotto droghe. A meno che non stiate sognando, ovviamente. Ma non è vostro il sogno. È di Abel Ferrara. Non quello solito degli spacciatori, i gangster, i poliziotti corrotti e le suore con la 45 nelle mutandine. Nemmeno il Ferrara “cristocanaro” di Pasolini e altri squallidi martiri della modernità desacralizzata. Del resto la scena con la nana non è un momento saliente del film, serve giusto a darvi un’idea di quale sia il livello generale di Siberia. Una coproduzione italo-tedesco-messicana girata un po’ nel Alto Adige e un po’ in qualche parco del Lazio, un pezzetto in Messico e nelle grotte di chissà dove. In Siberia c’è la neve, ma in quella di Ferrara c’è anche la sabbia. Un film coraggioso, certo. Strano ed estremo. Estrano, potremmo definirlo, volendo. Senza dubbio è un altro Ferrara, salvato, in vena di espiazioni freudiane, passando per Castaneda e forse anche un po’ Dante e Jack London. Ci si domanda dove, come e a chi Ferrara sia riuscito a scucire i soldi per realizzare una roba del genere e come mai riesca tutte le volte a convincere Willem Dafoe a dargli retta. Ma è una domanda inutile. Ogni domanda sul come, nella magia è inutile. E ormai, Abel è magico. C’è in questo vecchio regista auto-distrutto e quasi rigenerato (ma da sempre, anche quando era Nick St. John a scrivergli le sceneggiature) un senso di precarietà dello sguardo.
Come vedere dagli occhi di uno che è sul punto di collassare, di cadere e farsi male e poi svenire e svanire chissà dove. Magari risvegliandosi appunto in Siberia. Poteva essere una messa in scena robusta e pesantissima, come in Fratelli oppure una spossante carrellata per le strade di New York appresso a un pittore psicopatico in fissa con un Black+Decker, non si era e non si è, e non si sarà mai del tutto convinti di cosa lui stesse facendo. Col tempo le cose sono diventate ancora più traballanti, fino a dei film che sono più come sismi. Ferrara li realizza su una specie di filo da equilibrista. Nulla è mai scontato. Sa mandare in vacca di tutto. L’ha dimostrato molte volte. Però ha anche fatto vedere come dalle macerie possano spuntare impensabili ripartenze. Insomma, in Siberia nevischia alla grande quel pulviscolo di puro caos che Ferrara lascia da sempre su ogni cosa che gira. È un film surrealista e cruento come un Buñuel osservante, ma allo stesso tempo è anche serioso e irritabile alla Tarkovskij di Nostalghia. Non è un caso che si citino due registi esuli, perché Abel Ferrara è un esiliato. Lui negherebbe: la sua patria rimane il cinema, vi direbbe. Ovunque gli facciano girare un film, lì lui torna a casa, mette piede in una terra di sogni su cui spera di redimersi o perdersi ancora. Non gliene frega un accidente di venirne fuori.
Siberia è forse il tentativo estremo di evadere completamente da questo mondo e perdere la strada di casa una buona volta, aspettando che sia proprio la neve a cancellarla per sempre. È un viaggio tra antiche colpe, rimorsi incarnati e aspirazioni respinte, come nel dialogo con il mago nel bosco. Il sogno “ullissiano” del personaggio danza su lastre di rocce fragilissime e si rintana in oscure caverne piene di spettri e sì, quella nana nuda su sedia a rotelle che non si sa cosa stia dicendo o facendo, ma va beh. Le responsabilità private si mescolano a quelle storiche. Clint, come si chiama il personaggio impersonato da Dafoe, si perde in questo intreccio di allegorie e onirismi stitici di senso, affrontando tutto, ma alla fine, senza avere indietro qualche risposta a tutte le sue domande. Immaginiamo cosa abbia combinato, da chi stia fuggendo, con quali ferite sia cresciuto e invecchiato: il padre era chirurgo e sapeva incidere nei posti giusti, ma ci sono anche i cani, grossi e simpatici che gli addentavano da bimbo le gambe, mentre correva alla latrina di un rustico campeggio. Gli stessi cani che alla fine svaniscono nella neve, uggiolando di dolore. Spiriti guida, così come l’indiano, il pellerossa che gli porta un pesce da cuocere su un modesto falò in mezzo alla distruzione. È un Ferrara decisamente esoterico. Doveva finire così, del resto. Quando gira ormai lui scende, non si sposta. Scende a un livello più altro e chi vuole intendere intenda. E da lì ci invia sogni su una certa Siberia di orsi famelici, meravigliose contadine incinte e nane paraplegiche.