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Black Screen

Autore:
Luciano Staiano, Fubi, Giuseppe Andreozzi
Editore:
Shockdom

Il nostro giudizio

Più che un sottogenere o un filone, raccontare à la Black Mirror è diventato uno stile. Di fantascienza che parla del rapporto dell’uomo con la tecnologia, dell’impatto della tecnologia sulle nostre vite, ce n’è una quantità esorbitante. Se non è la definizione stessa di fantascienza, poco ci manca. Quello che distingue Black Mirror nel panorama del genere, pur essendo i tempi migliori della serie passati da un pezzo, è un’impronta particolare che la rende sui generis, quella capacità di imprimere alle storie raccontate una tale familiarità, un senso di domani imminente, che episodi in cui quest’impronta è più debole, come Metalhead, staccano di netto dal resto del franchise. Gli autori di Black Screen s’inseriscono perfettamente nel solco di Black Mirror con un racconto di fantascienza che riproduce esattamente quel senso di mancato distacco dal quotidiano e dall’imminente che ha fatto grande la serie.

Il soggetto del volume, soprattutto l’innovazione tecnologica su cui si costruisce, potrebbero tranquillamente venire adattati per un’eventuale nuova stagione. L’idea di un algoritmo che che prevede il futuro e tutte le relative implicazioni, non dissimile dall’idea di fondo del romanzo Osvaldo l’algoritmo di Dio di Renato De Rosa, imprime la giusta spinta a una trama che si scrive praticamente da sola, intorno all’idea che possano essere le azioni degli uomini a rendere accurata la previsione della macchina. Il risultato, come tutte le storie di fantascienza che riflettono sul concetto di tempo, è un gioco intelligente ma soprattutto discreto e mai strombazzato ai quattro venti, mai compiaciuto e mai inutilmente macchinoso con i piani temporali. Una narrazione onesta, senza inutili virtuosismi circonvoluti che si lascia leggere con piacere e intrattiene senza rinunciare a una sua profondità ma senza risultare oltremodo pesante, rischio sempre forte quando si tratta la materia tempo nel fantastico.

Che non convince pienamente sono i disegni. Non brutti, ci mancherebbe, Fubi è un disegnatore capace ma forse un po’ anonimi. Certo, Black Screen non fa della spettacolarità il suo punto forte, ma qui l’aspetto grafico manca di quel qualcosa che lo rende attraente, sia dal punto di vista del tratto sia dal punto di vista dei colori. Ed è un peccato perché in qualche modo finisce per penalizzare una sceneggiatura che una sua solidità ce l’ha. Fa comunque piacere trovare in fumetteria volumi del genere, racconti di fantascienza compiuti e che non cercano il pubblico in maniera ruffiana, ma portano a casa la storia con l’obiettivo di raccontare.