La piccola cineteca degli orrori: Abby

Un piccolo oggetto di (s)culto da vedere e dimenticare più in fretta possibile
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C’è stato un tempo, durante i gloriosi anni ’70, in cui il Diavolo sembrava far capolino un po’ dovunque con le sue appuntite corna. Che si trattasse di uomini, donne, vecchi, bambini e animali assortiti, niente e nessuno sembrava poter sfuggire al diabolico assalto dei beneamati satanassi capaci di provocare multipli torcicolli e interminabili rigurgiti al sapore di minestrone. Senza dimenticare un nutrito arsenale di colorite imprecazioni da scomodare l’intera batteria celeste e far tremare dalle fondamenta i solidi cancelli del Paradiso. Tutta colpa di quel buontempone di William Friedkin che, trasportando su schermo il cultissimo romanzo esorcistico di William Peter Blatty, riuscì a dar vita a una nuova stagione del cinema horror moderno, nella quale il buon vecchio Principe degli Inferi e la sua allegra combriccola non si sono più fatti alcuna remora nell’occupare abusivamente ogni carnoso involucro vivente a loro disposizione. Se tuttavia la scioccante opera di Friedkin è riuscita meritatamente a guadagnarsi un posto d’onore nel vasto Olimpo del cinema de paura grazie alle sue indubbie qualità, non ha tuttavia mancato di generare anche una folta schiera di figli e figliastri più o meno indegni che, dallo sboccatissimo Chi sei? (1974) di Assonitis alla gloriosamente pedestre Eretica (1975) di de Ossorio – senza ovviamente scordare la delirante Ossessa (1974) di Gariazzo e il sacrileghissimo Antichistro (1974) di De Martino – non si può certo dire abbiano fatto buon servizio alla secolare nomea dell’amico Lucifero. Ma nel mezzo di tutto questo satanico bordello pieno zeppo di pellicole al limite dell’ultramondana decenza, un posto di assoluto primo piano spetta sicuramenti ad Abby, esempio fra i più laidi e deliranti di ciò che può accadere quando un altro William che però di cognome fa Girdier si trova a partorire la bislacca idea di realizzare a tempo record un improbabile rip-off in salsa blaxploitaition di un caposaldo come L’Esorcista. Il tutto ovviamente alla chetichella e senza minimamente preoccuparsi di sborsare un centesimo né al povero Blatty né tantomeno ai capoccia della Warner Bros, forte del grido di battaglia di “fuck the copyright!”. Solo due anni erano infatti trascorsi da che la ghignate testolina rotante di una pustolenta Linda Blair aveva dato dello stracciacazzi a uno sbigottito Max von Sidow in abiti talari quando, nel corso della calda estate del 1974, in quel dell’assolata Louisville in Kentucky l’entusiastico Girdier e la sua allegra masnada di incapaci cinematografari si preparavano a battere il primo ciack di quella che avrebbe dovuto essere l’ennesima storiella di possessioni.

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Va detto innanzitutto che, nonostante avesse esordito con horror indipendente come Three on Meathook (1972) che avrebbe in seguito galvanizzato persino un giovanissimo Sam Raimi, il nostro caro Girdier avrebbe di lì a poco dato segno di una precoce e incipiente demenza cinematografica che avrebbe sancito la rapida discesa della sua carriera, finendo impantanato in sordide produzioni a costo sotto zero come Sheba, Baby (1975), Grizzly l’orso che uccide (1976) e Future Animals (1977), prima di tentare un ultimo fiero colpo di coda con lo sbarellatissimo Manitù, lo spirito del male (1978). Ed è appunto già da Abby che si possono intravedere tutt’altro che pallidamente i chiari segni di questa mancanza di talento cronico, a cominciare da una sceneggiatura che vorrebbe rendere credibilelo spaventevole calvario della povera protagonista che dà il titolo a questa monnezza, interpretata da una Carol Spreed decisamente sopra le righe e scelta per il ruolo dopo che la precedente attrice era stata gentilmente mandata a quel paese per aver preteso dalla produzione una massaggiatrice personale. È lei infatti a doverne passare di cotte e di crude nel momento in cui tal Eshu, spirito africano del caos e della carestia, prende possesso a tradimento del suo bel corpicino dopo essere stato incautamente liberato durante uno scavo archeologico in Nigeria nientemeno che dal di lei suocero. Sta di fatto che, una volta tornato a casa del figlio Emmett e della di lui novella sposina fresca di demoniaca possessione, il reverendo Garrett Williams si troverà costretto a dar battaglia a questa versione sfigata del ben più celebre Pazuzu, tentando di contrastare le manifestazioni demoniache dell’ossessa di turno che non possono che risolversi in comodini sbatacchiati a destra e a manca da annoiati attrezzisti fuori capo, buffissime contorsioni facciali rese ancora più ridicole da lenti a contatto biancastre acquistate a meno di un dollaro in un discount di provincia e, manco a dirlo, la solita vociaccia contraffatta da tabagista incallito. E se per caso ve lo steste chiedendo beh, ovviamente non può certo mancare all’appello anche il consueto vomitazzo a spruzzo d’ordinanza, stavolta a dire il vero decisamente meno abbondante e schifido a causa di mere questioni di budget, riducendosi a poco meno che il rigurgitino post poppata di un neonato inappetente. Passando attraverso interminabili dialoghi, lo sconclusionato montaggio ci conduce infine verso il clou di questo immondo carosello: il tanto atteso pirotecnico esorcismo liberatore che finisce per consumarsi nel mezzo di un’affollatissima tavola calda, in mezzo a un gruppo di avventori afroamericani che paiono usciti dai B-roll di un film di Bill Gun. Qui, un folcloristico reverendo Williams in guisa di sciamano riesce finalmente a sfrattare una volta per sempre il malefico satanasso dal fluttuante corpicino della povera Abby.

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E vissero tutti felici e contenti ovviamente. Beh, non proprio tutti a dire il vero. Non dopo aver preso consapevolezza di aver buttato nel cesso un’ora e mezza di preziosa vita per dar credito a una conclamata taroccata che nemmeno gli equivoci venditori ambulanti avrebbero voluto inserire nel loro catalogo di dvd pirata. Nonostante tutti gli evidenti difetti di forma e sostanza, va detto che nel corso dei decenni Abby è divenuto a suo modo un film leggendario, a cominciare dalle tribolatissime vicissitudini legali che portarono la Warner Bros. a vincere a mani bassissime la causa contro l’American International Pictures per violazione del copyright e a ritirare seduta stante tutte le copie 35mm distribuite nei cinema per darle testé alle fiamme. Non prima però che Girdier e la sua crew all black fossero riusciti a portarsi a casa ben 4 milioni di dollari di incasso a fronte di un budget che definire ridicolo è un eufemismo. A fomentare ulteriormente questa dubbia fama di film “maledetto” ci si misero inoltre voci tutt’altro che affidabili di non meglio specificati incidenti “sovrannaturali” che tanto parevano andar di moda a quel tempo sui set di pellicole a tema satanico, come improvvisi tornado che avrebbero seriamente minacciato la vita della troupe e presunti inspiegabili malori che finirono per colpire diversi membri del cast. Al di là di queste suggestive dicerie da osteria, rese ancora più succose dalla scarsità di stampe 16mm che si sono avvicendate per diverso tempo sino ai giorni nostri, Abby è diventato uno dei più folli e divertenti esempi di cinema di genere afroamericano di serie Z, un piccolo oggetto di (s)culto che tutti dovrebbero poter vedere almeno una volta nella vita per poi dimenticarlo il più in fretta possibile. Almeno di non voler a tutti i costi conservare nella mente una delle più inconcepibili parodie involontarie di un possession movie che mai si siano viste sulla faccia della terra.