Trainwreck: Woodstock ’99
2022
Trainwreck: Woodstock ’99 è una docu-serie del 2022, diretta da Jamie Crawford.
Fino a pochi giorni prima di essere resa ufficialmente disponibile, questa docuserie era stata annunciata e presentata tramite il suo trailer col titolo di Clusterf**k: Woodstock ’99. Poi, a quel clusterfuck, che già partiva censurato, si è preferito un più misurato trainwreck, che però sottintende all’incirca la stessa cosa: “un fallimento completo”, ma anche “qualcosa che va a finire malissimo”. Un po’ come l’edizione di Woodstock del luglio 1999, evento che trasse a sé quattrocentomila spettatori con un cartellone fitto di nomi d’alto profilo. Rage Against The Machine, Megadeth, Metallica, Red Hot Chili Peppers, Alanis Morrisette, Offspring, Chemical Brothers, ma anche Korn e Limp Bizkit, due band largamente attese dalla stragrande maggioranza dei partecipanti, prevalentemente giovani, caucasici ed estremamente scalmanati. Una tensione euforica, la loro, che tuttavia andò scontrandosi con un’organizzazione del festival rivelatasi sin da subito disastrosa (lo si era già visto, del resto, nel documentario della HBO Woodstock 99: Peace, Love, and Rage). Secondo i tre promoter principali, Michael Lang, John Scher e Ossie Kilkenny, la Woodstock del ’99 avrebbe innanzitutto dovuto ripristinare quei valori solidali (ormai stantii) di cui l’originale edizione di trent’anni prima si era fatta portabandiera e riportarli all’attenzione dei giovani americani di fine millennio, avvezzi com’erano alla violenza estrema, tipo quella del più recente massacro alla Columbine High School. Ma dal momento che l’edizione intermedia di Woodstock (del 1994) si era rivelata un fiasco in termini di ricavi, sei anni dopo Lang e la sua cricca puntarono tutto sul proposito di generare quanti più profitti possibili. Non soltanto avvalendosi di un numero spropositato di sponsor o sfruttando il sistema pay-per-view tramite l’emittente MTV, ma soprattutto tagliando in maniera inverosimile costi e spese gestionali, arrivando persino a risparmiare sulla security, che come si evince dalla visione di Trainwreck fu affidata a un gruppo di ragazzini senza arte né parte e a cui fu affibbiato il nome di “Peace Patrol”.
La scelleratezza organizzativa fu evidente già dalla scelta del sito che ospitò Woodstock ’99, un’ex base dell’aereonautica militare (situata nella località di Rome, Stato di New York) priva di alberi, aree verdi e punti d’ombra naturali che di fatto impedirono al pubblico di ripararsi dal caldo torrido di fine luglio, lasciandolo cuocere al sole con una temperatura che in quei giorni sfiorava i quaranta gradi. Una condizione resa ancora più snervante e insostenibile da un’ulteriore serie di fattori spiacevoli, come le tariffe odiosamente gonfiate a dismisura su cibi e bevande venduti nell’area ristoro (parliamo di dodici dollari per una pizza e quattro dollari per una bottiglietta d’acqua), oppure le code improponibili per accedere ai bagni chimici e ai risicati impianti per l’acqua, presto spaccati e resi inutilizzabili. Oltre a ciò, la manutenzione delle aeree dei tre palchi, peraltro distanti qualche chilometro gli uni dagli altri, fu pressoché nulla e gli spettatori, già dopo il primo giorno, furono costretti a spostarsi in mezzo a un mare di rifiuti – bottiglie, incarti e quant’altro. Un disastro che non poté far altro che stimolare un numero sempre più crescente di atti di vandalismo e violenze di sorta. Durante il set dei nu-metaller Limp Bizkit, il leader Fred Durst, buzzurro e gasato all’inverosimile nei suoi pantaloni oversized, incitò la folla a liberarsi dell’accumulo di rabbia durante la lunga introduzione del brano “Break Stuff”. La reazione fu spropositata e un gruppo di folli arrivò ad assaltare una torre radio, sradicandone le pareti di compensato per fare surfing sulla folla. La ciliegina sulla torta ce la mise un gruppo di cosiddetti “promotori della pace” guidati da un’organizzazione anti-violenza armata chiamata PAX (grande fantasia), che distribuì candele fra il pubblico nell’intenzione di creare una veglia pacifista durante l’esecuzione del brano “Under The Bridge” dei Red Hot Chili Peppers. La stolta iniziativa diede il semaforo verde alla creazione di pericolosissimi falò in punti diversi dell’area del concerto, alimentati dalla plastica cosparsa sul suolo utilizzata come combustibile.
Manco a farlo apposta, Anthony Kiedis e soci conclusero la loro performance con una cover di “Fire” di Jimi Hendrix (Kiedis trovò occasione di ironizzare sui falò, asserendo che gli ricordavano Apocalypse Now). E dopo che successivamente venne meno la promessa di un’ulteriore esibizione a sorpresa da parte di un “artista importante”, la condotta anarchica dal lato del pubblico non conobbe più limiti. Diversi bancomat furono assaltati; rimorchi pieni di merci e attrezzature varie vennero forzati, svaligiati e dati alle fiamme, mentre gli stand lasciati incustoditi da venditori fuggiaschi furono ribaltati e anch’essi incendiati. Peggio ancora, a evento concluso cominciarono a emergere casi di abusi sessuali cui sarebbero state vittime diverse ragazze, molestate durante il corso della manifestazione. Alla telecamera di Crawford, il reporter di ABC News David Blaustein attribuisce su un piano psicologico l’atteggiamento di quei giovani ai modelli presentati dal cinema di successo del 1999, come la commedia American Pie, che conteneva molti riferimenti espliciti di natura sessuale dal versante maschile, ma anche Fight Club, col suo alto tasso di violenza e cinismo nei riguardi della società consumistica. Ma a Woodstock in tanti rimasero feriti dalla calca e altrettanti furono assistiti per la troppa disidratazione. E qualcuno ci rimise anche le penne. Durante l’esibizione dei Metallica, un ragazzo di nome David DeRosia collassò per poi trapassare due giorni più tardi dopo essere entrato in coma. La madre di questi intentò una causa alla Corte Suprema di New York contro i promotori, rei di non aver garantito un sufficiente apporto di acqua fresca e cure mediche adeguate per i quattrocentomila. Il regista di Trainwreck aggira la questione legale, ma restituisce un resoconto assolutamente credibile di quel che accadde in quei tre giorni, fornendo risposte implicite attraverso le testimonianze di coloro che quell’evento lo vissero in prima persona, chi nelle vesti di inviato o in quelle di artista (come Jonathan Davis dei Korn, Fatboy Slim o Gavin Rossdale dei Bush), chi come membro del pubblico. Ma soprattutto è dai mancati mea culpa di Scher e Lang, che Crawford mostra tutte le falle di quello che ancora oggi è spesso ricordato come l’evento concertistico più disastroso della storia.