La poetica del bianco e nero
Perché il b&n ha ripreso forza negli ultimi dieci anni?
Nel nostro immaginario, il bianco e nero è da sempre collegato alle grandi pellicole del passato, ai tempi in cui i limiti tecnici non consentivano di restituire la realtà com’era in grado di percepirla l’occhio umano. Negli ultimi dieci anni però sono notevolmente aumentati i registi che hanno scelto per le loro pellicole una fotografia in bianco e nero e i risultati ottenuti possono definirsi, spesso, meravigliosi. Quando, negli anni Cinquanta e Sessanta, il colore era ormai una tecnica affermata, molti cineasti faticarono ad abbandonare la tradizione, convinti del fatto che la novità costituisse una scelta mainstream e togliesse in qualche modo l’aura poetica all’arte cinematografica. Se si pensa a film come La dolce vita, dove Fellini attraverso l’uso di quei chiaro scuri era riuscito a restituire un perfetto affresco dell’Italia dell’epoca; o alle tinte dei grigi a cui Visconti aveva dato vita con Rocco e i suoi fratelli; o, ancora, ad una realtà così anticonformista e rivoluzionaria generata da scene come quelle di Fino all’ultimo respiro, dal sapore romantico e vintage, si arriva facilmente a comprendere come, più di sessant’anni dopo, i registi della nostra epoca abbiano visto nel bianco e nero contemporaneo un’opportunità di conferire ai loro film una valenza artistica profonda e in qualche modo legata al passato, fino forse a superarlo.
Per scrivere questo articolo ho dovuto selezionare alcuni film, perché la scelta era assai vasta e, per gusto personale, non tutti li ritengo riusciti nell’intento di adoperare questa qualità tecnica per elevare il proprio lavoro invece che per vezzo estetico. Di seguito, dunque, troverete una lista dei film che ritengo meritevoli di analisi e che ho apprezzato in particolar modo. Il primo film che ho scelto di inserire in questo elenco è Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke. Il soggetto è ambientato in un piccolo paese protestante della Germania, nei giorni precedenti lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. In seguito ad alcuni incidenti, la popolazione inizia ad indagare per scoprire l’eventuale colpevole. Il ritratto dell’umanità che Haneke consegna al pubblico è cinica e severa, a tratti spietata così come l’educazione che gli adulti impartiscono ai bambini del racconto. Una società retta da potenti (un barone, un pastore e un medico rappresentano il ceto alto) che sfruttano quando non sottomettono i più deboli. La scelta tecnica della fotografia in bianco e nero, oltre a legarsi al contesto storico in cui la trama viene collocata, può essere riconducibile anche alla scelta di lasciar narrare la storia al maestro del villaggio che racconta, per mezzo di una voce narrante, i fatti a cui assistette ai tempi del suo lavoro presso il paesino di campagna. Inoltre sembra che la scelta si ponga anche come valore simbolico di fronte al richiamo che nel film viene spesso fatto rispetto al colore bianco, come ritorno alla purezza: i bambini del pastore infatti vengono obbligati ad indossare un nastro bianco dal “signor padre”, per ricordare la loro innocenza ormai macchiata da comportamenti giudicati immorali dagli adulti. Così, la decisione di ridurre i colori alle sole due tinte, sottolinea ulteriormente la netta distanza che scorre tra genitori e figli, dove i primi risultano privi di umanità nei confronti dei secondi, trattati con disprezzo, severità quando non addirittura, come nel caso del medico, come oggetto volto a soddisfare i propri desideri sessuali. Haneke punta il dito contro l’amoralità degli uomini e l’ipocrisia della fede e per farlo sceglie di avvalersi di tale scelta stilistica, ottenendo uno dei suoi risultati migliori.
Anche Noah Baumbach, con il suo Frances Ha (2012) interpretato da una convincente Greta Gerwig,
ha lasciato da parte i colori, prediligendo l’essenzialità del bianco e nero. Qui la storia di una ventisettenne newyorkese, in cerca della propria strada e in bilico su una vita irrisolta, ci viene mostrata attraverso brevi e rapide istantanee quotidiane che non seguono una narrazione convenzionale. In questo senso la scelta di una fotografia legata all’immaginario passato ben si lega alla vita di Frances, percepibile come incompiuta, e alla sensazione di incompletezza che permea ogni immagine che la coinvolge. La protagonista, persa alla ricerca delle sue ambizioni, finisce per diventare un personaggio senza tempo, una donna come molte prima di lei e altrettante che la seguiranno. Che non ci sia l’atemporalità di questa storia alla base della scelta del bianco e nero? In ogni caso, ottimo film. E poi Woody Allen ce lo insegna, New York assume ulteriore fascino se privata dei colori. Impossibile non citare Ida, del regista polacco Pawel Pawlikowski. Questo film, uscito nel 2013, è un doppio viaggio nella vita di una giovane donna decisa a prendere i voti: se da una parte ne si segue il percorso interiore volto a trovare la certezza della fede, dall’altra l’autore ci porta in un on the road che la protagonista intraprende con la zia Wanda, appena ritrovata, alla scoperta delle proprie origini e della propria storia familiare. Qui il bianco e nero si carica di valore simbolico e enfatizza la differenza tra le due donne, una dedita alla perdizione e ai vizi come evasione da una vita di dolore, l’altra devota ad una vita di privazioni. “Io sono una puttana e tu una santa”, recita la zia quando, sedute entrambe sul letto di una camera d’hotel, la luce sul comodino illumina solo la giovane, lasciando lei nell’oscurità della stanza. Le due tinte utilizzate vengono esaltate anche attraverso la scelta dei vestiti: bianco per Ida a sottolinearne la vita pura e nero per Wanda, persa tra fumo di sigarette, alcol e avventure notturne con uomini sconosciuti. L’utilizzo del bianco e nero riesce a conferire ai personaggi una caratterizzazione molto forte, senza necessità di dialoghi dettagliati o di scene didascaliche. Il film procede, infatti, per sottrazione ed essenzialità, dando valore ad una fotografia pulita e semplice. Il risultato è incisivo e morbido al tempo stesso e l’estetica dell’immagine riesce ad elevarsi ad una sacralità che rispetta il tema religioso, quanto la materia umana trattata.
Con Nebraska (2013), Alexander Payne sceglie di scommettere sul bianco e nero per diversi motivi, tra cui anche un suo personale desiderio, come afferma in una vecchia intervista rilasciata al The Guardian, di girare almeno un film nello stile del cinema degli anni Venti. Il budget che il produttore gli ha offerto in seguito a questa scelta si è ridotto poiché vi era il timore che potesse non funzionare, ma lui, convinto di ciò che aveva in mente, non si è lasciato scoraggiare e ha seguito un’intuizione che lo ha portato ad incassi notevoli. Il gusto personale, così come il vezzo estetico, non sono naturalmente gli unici motivi che hanno mosso Payne verso questa scelta. Il film pone al centro della narrazione un uomo anziano, alcolizzato e ormai con poco senso della realtà, in un viaggio on the road insieme al figlio. I due attraversano diversi stati dell’entroterra americano, raccogliendo ostilità, emarginazione e ignoranza. Il padre, tornato nelle proprie terre d’origine dopo anni, vede proiettato davanti a sé il profondo senso di solitudine in cui si trova immerso, il tempo ormai trascorso e la tristezza di una vita non sempre vissuta con onestà. In questa atmosfera intrisa di nostalgia, la scelta del bianco e nero esalta ulteriormente i sentimenti del protagonista e il suo isolamento emotivo.
L’altro lavoro che reputo tra i più riusciti degli ultimi anni è Roma (2018) di Alfonso Cuaròn. In questo caso la scelta stilistica è da ricondurre, come ha spiegato anche il regista in un’intervista, alla volontà di restituire attraverso i ricordi d’infanzia dello stesso Cuaròn, la storia di un piccolo quartiere popolare del Brasile, da cui il titolo prende il nome. Roma è stato un film economicamente molto impegnativo per la produzione, poiché il regista richiedeva un bianco e nero che risultasse diverso rispetto agli effetti prodotti nel passato: lo pretendeva luminoso, nitido e adeguato alla scelta di girare comunque in digitale. Questo ha comportato una spesa maggiore, ma una riuscita sublime. La particolarità di questo film penso che sia racchiusa nella volontà di voler superare il passato in termini di qualità del prodotto, pur strizzando l’occhio al neorealismo e alla sua propensione a catturare la realtà nella sua interezza, essenziale e vera. Gli attori, infatti, non sono professionisti, i dialoghi sono stati spesso improvvisati, nessuno dei personaggi conosceva il finale della storia prima dell’ultima scena girata, le emozioni che compaiono sullo schermo sono reali, tutto equivale al vero.
Dunque il bianco e nero non poteva che costituire la scelta più appropriata per quest’opera, la quale si fa carico di una solennità che la fotografia rispetta ed esalta ulteriormente. E infine vi è l’ultimo film che penso meriti una menzione. Rappresenta un caso particolare in quanto il regista ha voluto crearne due versioni, una a colori e l’altra in bianco e nero. Mi riferisco a Parasite (2019) di Bong Joon-ho, film coreano pluripremiato agli Oscar. La seconda versione, a mio parere, poteva anche costituire l’unica scelta, in quanto perfetta a rendere la differenza di classe raccontata nel film. Qui la luce sembra essere la vera protagonista della storia e il bianco e nero la sublima, riuscendo ad aumentare la distanza evidente tra la vita della povera famiglia Kim e lo sfarzo dei Park. Le tinte cupe, scure e ombrose del seminterrato in cui vivono i primi si contrappongono ai toni bianchi e luminosi degli ambienti eleganti del lussuoso appartamento dei secondi, in un’accentuazione tra ricchezza e povertà. L’accostamento delle due famiglie, così come l’affiancamento del bianco e il nero, risultano quindi grotteschi e confermano