Hatching – La forma del male
2022
Hatching – La forma del male è un film del 2022, diretto da Hanna Bergholm.
Stavolta, è proprio il caso di dirlo, qui gatta ci cova. Anzi, bambina ci cova, per essere esatti. E che diamine vuol dire, direte voi? Beh, non è affatto un mistero che negli ultimi tempi, almeno sul versante cinematografico, ai nostri biondi amici dell’estremo nord Europa le cose strambe sembrino piacere parecchio. E così, dopo il norvegese Thelma, l’islandese Lamb e lo svedese The Other Side, tocca infine alla finlandese Hanna Bergholm tenere alto l’onor di patria all’insegna del weird con il suo Hatching – La forma del male, un esordio al contempo potente e destabilizzante che definire bizzarro è quantomeno un eufemismo. Uno strambo oggetto filmico che pare il frutto proibito di una relazione quanto mai clandestina tra un fiabesco del Toro e un Lynch al suo massimo grado di simbolica cripticità; poetico e inquietante in ugual misura e già pronto, così come il povero neonato messianico della Madre! di Aronowksy, a vedersi conteso e fatto a pezzi tra chi lo amerà alla follia e coloro che vorrebbero solo vederlo bruciare in pubblica piazza. Ma d’altronde, come disse a suo tempo qualcuno di molto illustre e lungimirante: «non importa come, l’importante è che se ne parli!».
E dunque, nei limiti della capacità di espressione umana, cerchiamo di parlare di questo piccolo, folle e viscerale gioiellino che è Hatching – La forma del male, iniziando proprio da lei: dalla nostra giovane, gracile e bionda protagonista Alli (Siiri Solainna). Una promessa della ginnastica artistica, nata e cresciuta in una tipica famigliola scandinava che conta una Madre (Sophia Heikkilä) anch’essa ex ginnasta ora impegnata a promuovere il suo stile di vita suoi social, un Padre (Jani Volanen) dalla inerme presenza di spirito e il fratellino Matias (Alva Ollila) piccolo colone in frangetta e occhialini del masculo genitore, pestifero e viziato. Tuttavia, in mezzo a questa fittizia vita da sogno rischiarata dal medesimo abbacinante sole di Midsommar, la nostra piccola principessa della sbarra e delle parallele cova un profondo senso di solitudine e di inadeguatezza, continuamente pressata dalle ossessive aspettative di una madre che, con il flemmatico apparente benestare del marito, si dà alla pazza gioia con l’aitante tuttofare Tero (Reino Nordin). Ed è proprio con l’improvvisa intrusione domestica di un corvo, in seguito impietosamente ucciso proprio dalla melliflua matrigna, che gli inquietanti segnali di un pericoloso punto di rottura iniziano a farsi ben chiari all’interno di questo artificiale idillio fatto di sorrisi e dure sessioni di allenamento, portando la giovane Alli a nutrire con le proprie lacrime di dolore un piccolo uovo rimasto orfano, dal quale verrà alla luce un gigantesco e mostruoso essere uccelliforme profondamente connesso, anima e corpo, alla giovane madrina adottiva che l’ha amorevolmente e inconsapevolmente gestato.
Inizia come un perturbante kammerspiel familiare alla Lanthimos Hatching – La forma del male, nel quale, sotto pesanti strati di fittizia joie de vivre, si comincia fin da subito a subodorare il marciume di una decomposizione emotiva e relazionale già da tempo in atto. Ma improvvisamente ecco sopraggiungere l’elemento simbolico e fantastico: un tocco di surrealismo che, registrato e accettato per ciò che è, permette di concettualizzare l’idea di una sofferenza capace di crescere pressoché a dismisura fino al suo inevitabile punto di rottura. Ed è proprio con la rottura di questo grottesco uovo gigante e con l’emersione della terrificante creatura in esso custodita che l’opera di Bergholm inizia a toccare con mano ferma e decisa i terreni di un horror quasi cronenberghiano. Soprattutto nel momento in cui si inizia ad intuire che, tanta più sete di sangue il nostro pennuto mostriciattolo riesce a saziare – per lo più a discapito di coloro che hanno recato offesa, intenzionale o meno, alla piccola Alli – tanto più la sua fisionomia si fa umana e similare a quella della sua giovane madre-padrona. Una sorta di malvagio doppelgänger che, come in una rivisitazione del mefistofelico mito di Dorian Gray, rappresenta il lato oscuro e letale della psiche della nostra innocente protagonista, nutrendosi tutt’altro che metaforicamente del di lei vomito così da acquisire il vigore necessario a compiere il proprio istintivo compito: uccidere e proteggere. A volersi perdere poi in voli pindarici da delirio religioso, dietro a questo terrificante essere carnivoro da dark tales ci si potrebbe anche intravedere qualche ulteriore connessione con la figura cristologica del sacrificio quale espiazione dei peccati degli uomini. Ma forse, a ben vedere, sarebbe davvero troppo. D’altronde, già presa così com’è, un’opera del genere ci regala parecchia grassa, succosa e criptica carne da arrostire sul fuoco. Con il rischio ovviamente di una bella e sonora indigestione se gustata senza la giusta calma e misura.