Pistol
2022
Pistol è una miniserie televisiva del 2022, ideata da Craig Pearce.
Un piccolo e perdonabile spoiler: Pistol si chiude con le immagini della Regina Elisabetta. Effetto straniante quanto involontario che fa terminare la visione di un prodotto nel preciso momento, almeno a livello personale, in cui l’attenzione mediatica è tutta rivolta all’evento che l’opinione pubblica definisce all’unanimità come “la fine del Novecento”. E allora perché non ribaltare immediatamente il postulato e dire che proprio i Sex Pistols hanno rappresentato, meglio di qualunque altro fatto, quella fine? Le motivazioni saranno subito descritte, andando in ordine. Non serviva certo un’altra agiografia del punk in generale o dei Pistols in particolare: una quantità di saggi da comporre una biblioteca e anche un discreto numero di prodotti audiovisivi bastavano da soli a rendere un quadro completo e caotico al tempo stesso. Completo appunto, non complesso, che è tutt’altro paio di maniche. Serviva dunque un’opera che avesse il coraggio di andare fino in fondo, ossia smitizzare: pratica ostica e pericolosa, brutta e cattiva come il punk.
La ricetta vincente, o perdente a seconda dei punti di vista, è data dalle memorie di Steve Jones, da cui la serie prende piede, e dalla regia di un abile narratore per immagini delle miserie umane quale è Danny Boyle. Ed eccoli qua i nostri Pistols, come i tossici arrabbiati di Trainspotting, ad applicare il medesimo nichilismo e a riunire intellettualmente il “No Future” di rotteniana memoria con la “scelta di non scegliere” del proletario Mark Renton. Ecco il ladruncolo Steve, il folle Johnny, l’ingenuo Sid: protagonisti, antieroi, marionette inconsapevoli del grande disegno del burattinaio Malcolm McLaren, machiavellico creatore e distruttore quanto il colonnello Parker con il mito di Elvis. Pistol ha il merito, sin dalle prime battute, di descrivere senza pudore l’illusione di una contro-cultura (o anti-cultura) studiata a tavolino, proposta e venduta con le migliori tecniche di quello che oggi chiamiamo marketing. Un gruppo di “giovani e sexy assassini” che non sapevano cantare e suonare, ma la cui rabbia sociale fece breccia nel cuore di un pubblico alla ricerca di nuove vie di trasgressione e ribellione. Nel mezzo, appunto, il cambiamento: il Sex di Vivienne Westwood, Siouxsie and the Banshees, Chrissie Hynde e, ovviamente, Nancy Spungen. Personaggi femminili che ruotano intorno, osservano, si nutrono e soffrono della distruzione che deve accadere secondo copione.
Boyle dirige con dinamismo e leggerezza, mentre la fotografia è imperfetta e sporca al punto giusto. Ovviamente i migliori conoscitori dei Pistols potrebbero storcere il naso di fronte a qualche modifica romanzata rispetto alla realtà dei fatti, come le diverse imprecisioni sui due esautorati della band Glen Matlock e Wally Nightingale. Aldilà del solito racconto di sesso, droga e rock n’ roll, c’è la volontà di mettere in scena la storia di un gruppo di ragazzi che rincorrevano la fama e che in essa hanno trovato la propria rovina, come fece Jonas Akerlund con i Mayhem nel biopic Lords of Chaos. Una fiamma estintasi presto ma che è stata anche il principio di un radicale cambiamento nel panorama musicale, come le migliori rivoluzioni vogliono. Ciò che resta è quel momento, quell’istante bruciato da eccessi e tradimenti, quell’illusione di anarchia, quel desiderio di distruzione. La storia ha poi preso, inevitabilmente, la sua ovvia direzione: Dio ha salvato la Regina, Dio ha ucciso i Sex Pistols.