Wanna
2022
Wanna è una docu-serie del 2022, ideata da Alessandro Garramone.
Da sempre il problema col diavolo sta nella sua bellezza. Perché la bellezza del diavolo, per citare un vecchio film di René Clair, è quella che porta l’alchimista Faust ad accettare la proposta di Mefistofele, l’eterna giovinezza. Non si vuole paragonare Wanna Marchi al Maligno, naturalmente, perché Lui è molto meglio: l’ex venditrice televisiva non ha zampa caprina ma fu una piccola, grande truffatrice, una cinica signora emiliana che campava sulla disponibilità a credere di molti, sullo spiritismo della vecchia Italia che vede fantasmi in soffitta e pensa che uno scioglipancia faccia dimagrire. Però anche la credulità va rispettata, perché fa parte della nostra Storia, e la Marchi la sfruttò avidamente finendo fuori controllo. Ma il diavolo è affascinante, dicevamo: tutto qui il dibattito intorno a Wanna, la docu-miniserie in quattro puntate di Netflix ideata da Alessandro Garramone con la regia di Nicola Prosatore. Il racconto ricostruisce il percorso di Wanna Marchi insieme alla figlia Stefania, dagli albori nella cosmetica e nel negozietto passando per l’esordio catodico con le televendite “vere”, seppure ingannevoli (creme e alghe dimagranti), fino al tuffo nel mare aperto del crimine, ovvero truffa, estorsione e reati di varia risma, tra cui la classica ombra della camorra. Dal vendere prodotti fallaci le due passano a vendere il nulla, come numeri al Lotto e sale contro il malocchio, in compagnia di un altro piccolo criminale, quel “mago” Do Nascimento che alla resa dei conti scappa in Brasile a passo di coniglio evitando ogni responsabilità.
La storia è nota. Una vicenda tanto ridicola quanto patetica, se non fosse anche tragica: basta sentire le voci delle famiglie rovinate, alcune diventate testimoni (la maggioranza non per vergogna), oppure guardare il sequestro dello schedario Marchi che conteneva 300.000 nomi da taglieggiare a scopo estorsivo. Il punto è allora come la vicenda viene rappresentata, e qui torniamo al discorso del diavolo: gli autori danno voce alle Marchi e le mettono davanti all’obiettivo per raccontare la loro storia. La mamma, epitome della stronza come attesta il fotogramma che gira questi giorni (“I coglioni vanno inculati!”) e la figlia, ancora più inquietante perché non si è costruita ma ci è nata dentro, già in utero si è ritrovata in quell’humus spietato e amorale per sguazzarci volentieri. Le criminali, oggi libere dopo aver scontato la pena, parlano in camera e ricostruiscono la storia senza alcun pentimento, anzi se ne vantano: d’altronde sono così, non mentono a uso cinepresa. Compiono una riscrittura della morale per il loro narcisismo e convenienza. Allo stesso tempo naturalmente vengono registrate voci contrarie, prima di tutto le vittime ma anche gli attori dell’inchiesta, da un programma televisivo fino all’autorità costituita che si occupò del caso. Oltre ai poveri disgraziati, le parole più potenti sono forse quelle dell’avvocato difensore il quale, addirittura lui, improvvisamente rompe l’etichetta e dice la verità: “Si credevano così brave da poter vendere persino la fortuna”.
Ma questo non basta. Il documentario è nettamente sbilanciato in favore delle Marchi, a cui concede ampio spazio, creando un forte squilibrio rispetto alla parte avversa dei loro oppositori. E troppo ipnotica è Wanna per lasciarle microfono aperto a ruota libera. Attenzione: il punto non riguarda l’etica delle immagini. Nel nostro presente, l’epoca dell’autoscrittura social, dei balletti su TikTok, del privato messo in pubblico secondo le proprie morali, degli assassini che parlano in camera senza controcanto (non tutti sono Franca Leosini), c’è perfino di peggio di Wanna Marchi. Nel film American Murder vediamo la registrazione di un marito uxoricida che apre alla polizia e afferma candidamente di non sapere dov’è la moglie, poco dopo averla infilata in una cisterna. Ecco perché il delirio della Marchi non può stupire, ma Wanna è una serie claudicante, costruita in modo furbo e maldestro: non trova la potenza del true crime, di cui farebbe parte, non ha l’ambiguità di Sanpa e la vertigine indecidibile che lascia aperta la discussione. Punta tutto sulle talking heads, sulle teste parlanti delle protagoniste. Il rischio è quello di “vendere” la serie proprio come faceva Wanna Marchi, che a un certo punto se ne accorge. Alla fine cosa c’è davvero da sapere, cosa c’è da capire? Su cosa possiamo riflettere? La questione non è etica, è ottica. Anche il diavolo, se lo guardi fisso senza vedere altro, perde il suo fascino e diventa diabolicamente banale.