Il nido
La Seconda Guerra Mondiale sta giungendo al proprio termine, gli alleati sono prossimi a sbarcare e Adolf Hitler si ritira insieme all’amata Eva Braun e a una corte dei miracoli composta da giovani ragazze ambiziose, ufficiali vigliacchi oppure esaltati, camerieri e guardie di sicurezza. Il bunker che gli fa da rifugio è la sede di una festa permanente con lo scopo di tenere il Fuhrer, la cui salute mentale è sempre più minata da paranoia e allucinazioni, il più possibile all’oscuro dello sfacelo in atto. Anche di fronte all’evidenza, Hitler vaneggia di una riscossa impossibile mentre la sua illusione crolla pezzo a pezzo. Ormai è un trope, quello degli ultimi giorni del regime, i racconti del periodo appena precedente alla caduta di una dittatura sono solitamente storie crepuscolari e disturbanti, drammatiche nel persistere del denial di chi sta perdendo tutto e febbrili nella rappresentazione di una festa di cui si perde il controllo man mano che la fine si avvicina. Il paragone con Salò di Pasolini pare ingombrante quanto inevitabile e, come sempre in questi casi, la via maestra è non subire il solco tracciato dal classico immortale e tirare dritti per la propria strada raccontando la storia che si ha da raccontare.
E fa questo Marco Galli con il suo Il nido, la ripresa di un canovaccio ormai classico nell’epoca contemporanea, ma non mancano tracce più antiche come La maschera della morte rossa di Poe, opera di cui nel fumetto di Galli si trova più di un’eco, il racconto dei potenti chiusi nella loro fortezza alle prese con il mondo che si fa avanti per superarli una volta per deporli, non proprio per superarli perché in fondo le dinamiche del potere non cambiano mai più di tanto, e sostituirli con la generazione successiva. E, che dire, il paragone riesce anche perché Salò e Il nido sono due opere diverse, che raccontano una storia molto simile ma con toni e angoli di ripresa molto differenti nella misura in cui Galli prende quanto basta della lezione di Pasolini senza subirne l’ombra opprimente. Il libro, di conseguenza, è potente, allucinatorio e chirurgicamente efficace nel raccontare l’incapacità di accettare l’inevitabile svolgersi degli eventi in una rappresentazione estremamente realistica degli idola tribus baconiani, la tendenza della mente a respingere le conclusioni che non le convengono, che non le fanno piacere e che mettono in gioco la propria rappresentazione della realtà.
Laddove Hitler nega ostinatamente il contrasto con il suo entourage si fa quasi doloroso. Il giovane tenente Beker fa prudere le mani nella sua esaltazione romanticoide della bella morte, i suoi commilitoni sono i classici topi pronti ad abbandonare la nave che affonda mentre Eva Braun si porta in spalla il suo fardello con una rassegnazione fredda quanto amara, procedendo per inerzia verso una meta che già intuisce ma a cui sa di non potersi sottrarre. A ragion veduta, verrebbe da dire, poiché la Storia è inesorabile quando si mette in moto, e quando la corsa della sfera sul piano inclinato non si può più arrestare, si può solo raccontare il dramma dell’attesa dell’impatto. Un compito semplice, che Marco Galli assolve come si deve.