Intervista a Matteo Lena
Il regista della serie Il mostro di Udine sarà uno degli ospiti di Giallo Berico
Come nasce il progetto della docu-serie dedicata al Mostro di Udine?
Elena Commessatti, una giornalista di Udine, allieva della scuola Holden, aveva scritto un libro in forma di romanzo ispirato a questa storia, intitolato “Femmine un giorno”, ma aveva cambiato tutti i nomi delle vittime e dei reali protagonisti di questi fatti di cronaca e scelto di raccontare solo alcuni degli omicidi commessi tra gli anni ‘70 e gli anni ‘90 nella sua città. Parliamo di una serie di femminicidi molto cruenti – accoltellamenti, sgozzamenti, strangolamenti – le cui vittime nella maggior parte dei casi si prostituivano. Il canale Crime + Investigation, che collabora con la scuola Holden, era venuto a sapere di questo romanzo e dell’esistenza di un fantomatico serial killer mai identificato noto come il Mostro di Udine e mi ha chiesto di fare una ricerca per appurare se fosse stato possibile raccontare questa storia in un documentario in più puntate. Quindi la docu-serie nasce da un lavoro di ricerca che mi è stato commissionato e che mi ha coinvolto e appassionato sempre più, giorno dopo giorno, mese dopo mese.
Per la stesura della sceneggiatura, sempre a tua firma, da quali fonti hai attinto le informazioni?
Ho recuperato i contatti di poliziotti, carabinieri, magistrati, avvocati e giornalisti che si erano occupati di questi casi nei decenni passati. Li ho incontrati di persona, mi sono fatto condurre sul luogo dei delitti, ho cercato di rintracciare i parenti delle vittime, amici, familiari e conoscenti. Ho guardato tutti i servizi televisivi che erano già stati realizzati negli anni precedenti – pochi, a dire la verità – sono andato nelle emeroteche a fotografare gli articoli usciti all’epoca sul Messaggero Veneto e sul Gazzettino, e grazie alla collaborazione della Procura di Udine e di alcuni avvocati ho recuperato i vecchi fascicoli delle indagini relative a questi omicidi irrisolti. La sceneggiatura si basa sullo studio di questa documentazione e su alcune interviste chiave a carabinieri, avvocati e magistrati che conoscevano questi omicidi nei minimi dettagli. Da questo materiale siamo partiti – io e gli altri sceneggiatori – per immaginare nuove piste investigative e per programmare altre interviste a testimoni o semplici sospettati mai intervistati prima. A un’attenta preparazione giornalistica abbiamo cercato di affiancare un lavoro di scrittura assimilabile a quello della fiction seriale per rendere più coinvolgente la narrazione e colmare le grandi lacune di repertorio video.
Rintracciare persone coinvolte nell’indagine e nei fatti, poi presenti nella serie, è stato faticoso?
La parte più difficile è stata guadagnare la fiducia dei parenti delle vittime o almeno di quei pochi che sono riuscito faticosamente a rintracciare e convincere a rilasciare un’intervista. Molte delle vittime hanno lasciato i loro figli orfani, sono stati affidati ad altre famiglie, cambiando residenza e cognome e diventando difficilmente rintracciabili. Alcuni provavano molta vergogna e riserbo a parlare di questi delitti, forse perché le vittime si prostituivano e non andavano orgogliosi di questo passato, altri invece non volevano comparire in televisione ed erano molto diffidenti nei confronti dei giornalisti e di chi fa televisione. Però ci tenevo che a raccontare le vittime fossero le persone che realmente le avevano conosciute, le stesse persone alle quali quella morte violenta e improvvisa aveva sconvolto la vita. Volevo che il ritratto delle vittime fosse sentito e veritiero. L’incontro con le persone che mi hanno degnato della loro fiducia – Fedra Peruch, Nicolino Bernardo e Barbara Bellone, tre persone che sono state segnate da una gravissima perdita quando erano ancora solo dei bambini – mi ha colpito e mi ha anche arricchito umanamente, portandomi a riflettere a lungo sul lavoro che faccio e sul come andrebbe fatto.
Si tratta di un cold-case tra i più efferati, eppure paradossalmente anche tra quelli meno “acclamati” e/o discussi. A cosa credi sia dovuto questo?
Credo che il Mostro di Udine non sia noto quanto il Mostro di Firenze – tanto per fare l’esempio più illustre – perché le vittime del Mostro di Udine non erano giovani coppie, italiane o straniere, ma donne che in buona parte praticavano la prostituzione, erano di estrazione sociale molto bassa e avevano spesso problemi di dipendenza da alcol o droga. Le loro famiglie non si sono mai potute permettere battaglie legali annose e difficili, spesso non hanno avuto nemmeno il coraggio e la determinazione necessaria per alzare la voce e chiedere verità e giustizia. Non si è mai pensato di costituire una task force specializzata che si dedicasse esclusivamente all’individuazione del serial killer e non si è mai arrivati a un processo perché non sono mai state raccolte prove sufficienti per accusare ragionevolmente i principali sospettati. Con queste premesse era difficile che una serie di omicidi avvenuti tanti anni fa in una provincia del remoto nord est diventasse un caso mediatico di rilevanza internazionale.
Com’è stato tornare sui luoghi di quei brutali delitti?
Non saprei. Il primo delitto, quello di Irene Belletti, è avvenuto nel 1971 in città, molto vicino alla stazione ferroviaria, lungo una stradina che fiancheggia una roggia e molto vicino all’albergo dove ho soggiornato per tutto il tempo delle riprese. Quando sono arrivato in città mi è sembrata una strana coincidenza quella di ritrovarmi così vicino al luogo dove tutto aveva avuto inizio. Le altre vittime invece sono state ritrovate tutte in campagna. Sono state abbandonate nude o seminude sul limitare di un campo di grano o sotto un filare di gelsi. Un paesaggio molto simile a quello nel quale io stesso sono cresciuto, all’altra estremità della pianura padana. Quindi per me in questi luoghi c’era qualcosa di spettrale, ma anche di familiare. Sono passati ormai tanti anni da quei delitti, tanti che gli stessi poliziotti o carabinieri che erano accorsi per primi sulla scena faticavano a identificare esattamente il punto del campo o della stradina sterrata in cui erano stati rinvenuti i cadaveri. Ma più che i luoghi dei delitti, mi hanno impressionato le foto della scientifica e le autopsie: mi hanno fatto ribrezzo e mi hanno commosso perché ho provato un’enorme pena per quelle donne. Nessuno si merita quella fine, ma loro avevano già avuto in sorte un’esistenza disgraziata e la loro morte violenta e insensata per mano di un maschio misogino e violento è stata come l’ennesima, spietata sciagura che si è abbattuta su di loro e sulle loro famiglie.
Sappiamo che addirittura durante le riprese sono emersi dei nuovi reperti, vero? Possiamo aspettarci qualche svolta nelle indagini?
Sì, durante le riprese, sono stati rinvenuti dei vecchi reperti contenuti all’interno dei fascicoli delle indagini. Quei reperti sono stati rinvenuti all’epoca nei luoghi dove sono stati rinvenuti i cadaveri delle vittime del Mostro di Udine. Parliamo nello specifico di un preservativo contenente del liquido spermatico rinvenuto all’interno della vettura di Maria Luisa Bernardo, luogo dove era stata accoltellata nel 1976 e di uno spinello ritrovato vicino al cadavere di Maria Carla Bellone nel 1980. Su questi reperti, in seguito all’uscita della serie tv e alla riapertura delle indagini, sono state fatte dalle analisi e sono state trovate tracce di DNA maschile che potrebbero aiutare a individuare il colpevole di almeno uno di questi due omicidi. Ma a quanto mi risulta è passato troppo tempo dalla riapertura delle indagini a quando sono arrivati i risultati, inoltre i risultati sono stati immediatamente diffusi a mezzo stampa non so da chi e anche questo non credo abbia aiutato le indagini. Ma quello che mi sembra mancare è la volontà e la determinazione a indagare seriamente, senza far passare altro tempo inutile e mi sembra che questo accada ogni volta che i riflettori dei media si allontanano da una Procura.
Dalle indagini e dalle ricostruzioni è emerso che sia sempre stata una sola mano ad agire? La tua opinione?
Nell’arco di un ventennio a Udine tra gli anni ’70 e la fine degli anni ’80 ci sono stati troppi femminicidi per non ipotizzare la mano di un serial killer. Alcuni di questi si assomigliano fin troppo tra di loro per non sospettare o ipotizzare un’unica mano. La mia opinione, tuttavia, è che non tutti i femminicidi avvenuti in quel ventennio siano ascrivibili alla stessa persona: credo che ci siano stati diversi mostri. Qualcuno potrebbe aver commesso solo un omicidio o due, qualcuno potrebbe anche averne commessi tre o quattro. Ma considerando che molte altre prostitute sono state uccise violentemente a Udine e provincia anche negli anni successivi, forse la cosa sulla quale dovremmo più riflettere e dibattere è il problema della violenza maschile in genere: è evidente che troppi uomini non riescono a controllare le loro pulsioni più misogine e violente e finiscono per commettere femminicidi fuori e dentro casa, a Udine come nel resto del pianeta. Questo è il Mostro maschile che non dovremmo smettere di cercare e arrestare.
Perché suggeriresti a uno spettatore di guardare la serie Il mostro di Udine?
Perché credo sia stata la prima docu-serie true crime italiana ad aver riaperto un cold case. Ci abbiamo dedicato un anno e mezzo di lavoro e passione, e credo di aver realizzato quattro episodi che hanno ben poco da invidiare a serie Netflix, Amazon o Sky che sono state prodotte successivamente con budget di gran lunga più alti. È uno dei pochi lavori televisivi dei quali non mi vergogno.