Cabinet of curiosities
2022
Cabinet of curiosities è una serie tv del 2022, creta da Guillermo del Toro.
Non si può negare che il 2022 non sia stato un anno di fuoco per l’autore Guillermo del Toro: nel dicembre 2021 è uscito al cinema con Nightmare Alley, dodici mesi dopo ha portato la sua personale trasposizione di Pinocchio per Netflix, in mezzo ha prodotto questa serie antologica dal sapore retrò. L’operazione, infatti, schiude le fragranze di serie d’epoca come Ai confini della realtà, ma il paragone ha poco a che fare con l’architettura della miniserie, quanto piuttosto con la voglia di sperimentare diverse sfumature del genere fantastico. Del Toro si limita (si fa per dire) a presentare gli episodi, come faceva Alfred Hitchcock nella sua serie antologica, sbucando a inizio puntata letteralmente dalle tenebre e aprendo un cassetto di un armadio delle meraviglie da cui tirar fuori un oggetto, un feticcio, da abbinare al tema della storia. Diversamente dalle serie sopra citate che, al netto della presenza di qualche guest star o degli esordi di qualche autore, non facevano mostra di particolari nomi alla regia, Cabinet of curiosities offre un carnet interessante di registi, una selezione succulenta che eleva l’opera a candidarsi a essere il degno erede del progetto Masters of horror negli anni Venti. Se Mick Garris dava ai registi della vecchia guardia la possibilità di esprimersi in totale libertà creativa, Del Toro sembra più orientato a creare una cartina al tornasole dei nuovi autori horror, ancora in parte sconosciuti al grande pubblico ma che hanno già dato la possibilità di far vedere le proprie potenzialità e, nella serie, di confermarle, nel bene e nel male. L’episodio di apertura è Lotto 36 ed è diretto da Guillermo Navarro, direttore della fotografia di Del Toro (che collabora alla sceneggiatura) e premio Oscar per Il labirinto del fauno, a suo agio nel costruire, almeno dal punto di vista visivo, atmosfere inquietanti e malsane. Il veterano di guerra Nick (Blake Nelson) tira a campare acquistando a poco prezzo i diritti dei magazzini abbandonati dai proprietari e rivendendo la roba ivi contenuta. Del lotto 36 sbuca fuori però la vecchia proprietaria che chiede di avere indietro alcuni oggetti, ma Nick rifiuta, poiché tra le cianfrusaglie rinviene dei libri esoterici molto preziosi che possono richiamare dei demoni. La parte finale con la scoperta del demone ha un tasso di tensione elevato e alcune sequenze sono davvero terrificanti, ma ci si arriva con una premessa estremamente tirata per le lunghe e un eccessivo ricorso al dramma per dare spazio alla bravura, indiscutibile, di Nelson che dà corpo a un personaggio ripugnante e senza scrupoli.
Il secondo nome presentato è quello di Vincenzo Natali che, dopo l’esplosione folgorante di Il cubo, ha avuto una carriera altalenante tra lungometraggi poco riusciti e tante serie tv, che comunque confermano il suo talento innato per il soprannaturale. Nel I ratti del cimitero il regista italo-canadese, qui anche sceneggiatore, convince in una storia, che riverbera echi kinghiani ma è tratta da un vecchio racconto di Henry Kuttner, in cui un profanatore di tombe cerca di rubare i gioielli dai cadaveri del cimitero ma viene sempre anticipato dai topi che vivono sottoterra e che sembrano essere guidati da un’intelligenza superiore, come il profanatore avrà modo di verificare seguendoli nei cunicoli sotterranei. L’episodio L’autopsia è diretto da David Prior, autore del sottovalutato The Empty Man, e scritto da David S. Goyer ed è quasi interamente ambientato in un lugubre obitorio. La potenza dell’ambientazione è abilmente supportata dal mestiere di F. Murray Abraham nei panni di un anatomopatologo, in odore di morte a causa di un cancro, che riceve dalla polizia un cadavere apparentemente collegato a una serie di strani eventi. La trama ricorda molto Autopsy di Andre Øvredal, di cui ripropone anche la concezione dell’orrore, viscerale e sfociante nel body horror, fatto di attesa fino all’esplosione finale. Sempre nei dintorni del body horror si aggira sorprendentemente la regista di origini iraniane Ana Lily Amirpour (A Girl Walks Alone at Night, The Bad Batch) con L’apparenza, sardonico apologo sull’ossessione della società attuale nei confronti dell’estetica, che spinge la docile Stacey (Kate Micucci) a dare retta alla pubblicità di una crema miracolosa che migliora la pelle, così da poter essere accettata dalle sue vanitose colleghe di lavoro e, soprattutto, da se stessa. La Micucci dà vita a un personaggio tragico, che si fa facilmente odiare ma che è specchio delle debolezze dell’animo umano, inserito sadicamente dalla Amirpour in un truculento contesto in cui la mascolinità tossica non esiste (il marito, un poliziotto, le ripete continuamente che non c’è niente che non vada in lei), lasciando il posto a un’entità aliena che sfrutta questi vuoti culturali, manipolandoli attraverso la pubblicità in tv e trovando strada facile in mezzo a feste borghesi che la Amirpour deforma ad arte con il grandangolo. Gli echi sono evidenti, in particolare è palese l’influenza di Lovecraft filtrato dall’opera di Yuzna. E se in L’apparenza è solamente una vaga eco, nell’episodio di Keith Thomas Il modello di Pickman, l’ombra lunga della narrativa di Lovecraft è finalmente svelata. Thomas adatta infatti l’omonimo racconto, in cui lo studente di arte Will (Ben Barnes) conosce il pittore Richard Pickman (Crispin Glover) e rimane profondamente sconvolto dalle visioni dei suoi quadri, che sembrano raccontare qualcosa di reale e capace di manipolare la realtà. Tra incubi truculenti e un finale pessimista, l’episodio è un perfetto progredire verso la follia e uno dei tentativi più riusciti di rappresentare l’orrore cosmico tanto caro allo scrittore.
Ancora un racconto di Lovecraft è il tappeto narrativo di Dreams in the witch house, diretto da Catherine Hardwicke ed è anche il nadir della stagione ed è probabilmente un segno che la regista abbia dato lo stesso contributo, modesto, all’antologia di Del Toro di quello concesso, altrettanto modestamente, al cinema horror tout court, con Twilight e Cappuccetto rosso sangue. La storia, già adattata con altri risultati da Stuart Gordon nella seconda stagione di Masters of Horror, racconta l’ossessione di Walter (Rupert Grint, che dopo Harry Potter conferma il bisogno di staccarsi da quelle atmosfere per abbracciare il vero dark, l’inquieto, come in Servant) nei confronti della sorellina scomparsa e che cerca di scovare assumendo delle droghe che lo portino in una dimensione alternativa. Le atmosfere cupe e qualche trovata scenografica affondano però nella banalità della narrazione, diluita a dismisura. Chiudono la stagione altri due gioiellini di fattura assolutamente cinematografica. Il primo, La visita, è firmato Panos Cosmatos e ogni inquadratura è un frutto più che evidente del talento del regista canadese, autore di quella follia di Mandy con Nicholas Cage. Ambientato in gran parte in una stanza, con dei personaggi che assumono una sostanza che dovrebbe garantire un’esperienza irripetibile, con conseguenze inaspettate e brutali. Oltre al cast, con nomi come Peter Weller e Sofia Boutella, colpisce la notevole parte visiva, la messinscena onirica e al di fuori di ogni standard televisivo, con colori e luci del tutto alieni e che fanno passare in secondo piano alcune debolezze nella scrittura e il finale troppo brusco. Con altri criteri, ma con risultati altrettanto efficaci, lavora invece l’australiana Jennifer Kent in Il brusio, dove ritorna alle atmosfere intime e ai rapporti interfamiliari di Babadook, da cui si porta dietro anche la protagonista Essie Davis nei panni di un’ornitologa che col marito (Andrew Lincoln) studia il volo dei piovanelli. La casa che hanno preso in affitto però sembra nascondere degli orribili segreti, legati anche al trauma e al lutto che stanno cercando di superare. Il gioiellino di Kent chiude la stagione come un anticlimax, frenando di botto sul versante del gore e puntando maggiormente sulle psicologie e le atmosfere, anche se un paio di jump scare sono sinceramente sorprendenti ed efficaci, lasciando la netta impressione che lo stato dell’horror attuale, ben rappresentato dalla rosa di nomi sovrastanti, sia florido e sfaccettato. Ne sia dato un grosso merito a Del Toro.