Chucky la serie
Un ghigno da paura e Il ciclo della Bambola assassina
È a un saggio dello psichiatra tedesco Ernst Jentsch, On the Psychology of the Uncanny, scritto nel 1906, che si deve la prima esaustiva trattazione del concetto di perturbante, o “sinistro”, come ha poi proposto lo psicologo dell’arte Francesco Orlando, ovvero quel“Das Unheimliche”, di gran lunga più poetico e imperscrutabile della traduzione italiana, illustrante una forma specifica di paura: quella suscitata dalla contemplazione di cose, oggetti e strumenti assai simili per conformazione all’umano sembiante, ma del tutto estranei o sconosciuti (o meglio, non familiari nell’etimologia proposta da Jentsch) agli occhi che li osservano.
Da qui il senso di spaesamento, quello iato indefinibile tra quanto percepiamo come appartenente al mondo dei viventi e quel che invece, pur collocandosi a esso molto vicino, vegeta ancora nel limbo dell’artificio, del trucco, dell’imitazione dell’ingegno artigianale. Bambole, automi, manichini rientrano a pieno titolo nell’Unheimliche, perché esprimono più e meglio di tanti altri, lo spazio infinitesimale che divide l’umano dalla sua allegoria, la sostanza che lo rappresenta dalla metafora che lo riproduce. E infatti fu lo stesso Sigmund Freud, anni dopo, a regalarci un’illuminante dissertazione sulla bambola Olympia, il manichino in guisa femminea che lo stesso Jentsch prelevava dalla raccolta di E.T.A. Hoffman, Nachtstücke (1817), e che lo psichiatra austriaco non interpreta più, o non soltanto, come immaginosa chimera del perturbante, bensì in quanto estensione di un ulteriore timore tipicamente infantile, l’accecamento e quindi l’evirazione
UN TEATRO DELLA CRUDELTÀ IN FAMIGLIA
Cosa c’entra tutto questo? C’entra eccome, perché anche se Don Mancini, che sul finire degli anni Ottanta non era nulla più che un anonimo sbarbatello dell’UCLA, non si rendeva conto di aver sceneggiato una storia degna del miglior Freud, gli elementi per definirla un caso da manuale (estetico, cinematografico ma anche psicoanalitico) ricorrono tutti: la bambola che cammina, innanzitutto, e il complesso della castrazione, che Mancini, di famiglia italiana cattolica osservante, maturava per via di un padre restio ad accettarne l’omosessualità mai davvero mascherata. Non è un caso che l’uomo abbia tentato di esorcizzare la paura di un genitore oppressivo nella figura apparentemente bonaria di una bambola. Chucky, questo piccolo demonietto lentigginoso assemblato da Kevin Yagher (l’effettista di Nightmare 2 e 3), e in qualche modo ispirato alle bambole che allora andavano per la maggiore, le Cabbage Patch e le meno graziose Buddy Dolls, ha tutto quello che si può definire antinomico per un pupazzo: un carattere irascibile, una brutta faccia e tanta voglia di uccidere. Un po’ come il padre di Don, insomma. E non è forse nemmeno un caso che alcuni degli omicidi più cruenti abbiano proprio gli occhi come oggetto prediletto di accanimento.
Come in Olympia, meccano privo di occhi e quindi di sguardo, contesa trai suoi pretendenti, e come la figura del mago sabbiolino, Der Sandman, che estirpa, castrandoli, gli occhi degli infanti nelle cui camere si intrufola. Il mago era in realtà un alchimista, il mefistofelico Coppellius, nell’opera di Mancini un abile stregone voodoo, Charles Lee Ray (Brad Dourif), che ricorre, guarda caso, proprio alle arti esoteriche per trasmigrare la sua anima nel corpo di una creatura di pezza. Automi, magia, castrazione.Il cerchio uroborico delle coincidenze si chiude alla perfezione, o forse no. In realtà è l’orrore della (e per la) famiglia il macabro spettacolo che Mancini inscena per ogni film della serie, a partire dal rapporto distante tra il piccolo Andy (Alex Vincent) e la madre (Chaterine Hicks) nel capolavoro diretto da Tom Holland (La bambola assassina, 1988), che porterà la seconda ad abbandonare metaforicamente il figlio alle mire distratte di una baby-sitter antipatica (saggiamente massacrata a martellate e defenestrata dal perfido Chucky) e il secondo, una volta sottratto alla donna finita in manicomio, presso le cure di una famiglia affidataria.
Quella di Chucky è quindi e innanzitutto una storia di rabbia repressa, frustrazione infantile e desiderio omicida di rivalsa, e non è un caso che Mancini fosse partito da una intuizione geniale, folle e iperbolica al tempo medesimo, cioè suggellare un tremendo patto di sangue tra un bambolotto Tipo Bello (Good Guy, nell’originale), dotato di emoglobina sintetica che lo rendeva artificialmente predisposto al sanguinamento, e un infante trascurato che si vendicava dei torti subiti proiettando nel fantoccio il proprio Id represso. Ma David Kirschner, produttore dell’intera saga, preferì rabbonire il soggetto con scelte meno oltraggiose, e le implicazioni psicoanalitiche si dovettero insinuare in maniera più subdola e periferica.
LA SAGA CONTINUA
In realtà è dall’opera seconda, La bambola assassina 2 (1990), firmata da John Lafia, co-sceneggiatore del film precedente, che l’omicidio assume una sfumatura più barocca, sfrangiandosi in una scala di violenza che Holland, da bravo mestierante, aveva forse semplificato pur di non scivolare nel grandguignolesco. L’ira funesta del rustico bambolotto colpisce naturalmente i genitori adottivi di Andy, il padre, reo di un’educazione autoritaria, gettato per le scale, la madre putativa strangolata mentre si dedica al cucito; oppure la giovane assistente sociale (Grace Zabriskie), il cui corpo, sgozzato e rovesciatosuunamacchinafotocopiatrice, replicheràinnumerevoli volte l’immaginegranulosadellapropriauccisione.
Ma ormaiildanno era fatto, e Chucky sistavagiàriproducendo in alcunepellicole “a tematica” come Puppet Master (1989), Demonic Toys o Dolly Dearest, entrambe del 1992. Fu forse per questo che Kirschner costrinse un affaticato Mancini a stendere in fretta e furia il copione di La bambola assassina 3 (1991), affinché il film fosse pronto appena pochi mesi dopo l’uscita del secondo; il regista Jack Bender sostituiva la famiglia, reale o surrogata, con il concetto più espanso di accademia militare, presso la quale un Andy orfano e ormai diciassettenne (interpretato da Justin Whalin) era chiamato a prestare servizio. E il film fu giustamente un fiasco al botteghino, perché snaturava l’idea stessa della serie, isterilendone l’humussu cui Chucky aveva costruito il suo emblema. Il fatto che incassò soltanto 20 milioni di dollari, la metà del “kolossal” diretto da Tom Holland, fece desistere l’abile Kirschner dal produrne ulteriori.
NOZZE DI SANGUE
Il pubblico voleva ancora una storia morbosa, cattiva, in cui a morire fossero i parenti degli sprovveduti protagonisti. Lo capisce Kirschner, e lo capisce pure Mancini che, con La sposa di Chucky, di cui il nostro è stato anche regista in pectore cause assenze del legittimo pretendente, Ronni Yu, consente a un Chucky ormai adulto di prendere moglie. La scelta azzeccatissima cade su una amica di Mancini, per la quale il ruolo fu appositamente scritto, la stupenda manza Jennifer Tilly, vedova allegra del satanico Charles Lee Ray, che una volta assassinata dal redivivo strangolatore di plastica e gomma piuma, viene trasferita nel corpo di un burattino dall’inquietante look gotico. Chucky e Tiffany, marito e moglie, ma soprattutto padre e madre, perché non soltanto Mancini, in questa commedia splatter dai toni surreali e compiaciuti, in scena un matrimonio ideale tra due serial killer sempre alle prese con nuovi metodi di omicidio e tortura, ma elabora una riflessione disarmante, malinconica e al contempo divertita sulla famiglia, o su ciò che per lui, ormai uomo maturo, finisce per comportare. I due burattini, che per la prima volta nel cinema ci regalano una scena di sesso pupazzesco, riescono a coronare il loro sogno d’amore contro natura dando alla luce un figlio bruttissimo, protagonista del capitolo successivo, trionfo alla regia dello stesso sceneggiatore. Ed è infatti ancora l’ambiguità degli affetti parentali, delle violenze, dei soprusi, e delle crisi di identità a muovere le corde di Glen/Glenda, adolescente di lattice e dati digitali che nel Figlio di Chucky (2004), dopo aver scoperto di non possedere orifizi genitali, si dedica al travestitismo, alle parrucche, agli indumenti femminili pur di assumere un sembiante sessuale riconducibile ora alla figura materna, ora a quella paterna. È forse la presenza di John Waters, qui nelle vesti di un petulante giornalista, a sottolineare come la scelta di Mancini di rappresentare lo scabroso e il trasgressivo faccia parte di una strategia narrativa attentamente pianificata.
RITORNO AL PASSATO
Il coup de théâtre è però tutto riservato a La maledizione di Chucky (2013) che rinnega, pur senza mai abiurare, le atmosfere festose degli ultimi film, per tornare all’origine del male, la famiglia borghese di stampo liberale americano. Le risate appartengono a una parentesi felice ma definitivamente chiusa, come un vestito elegante che ha fatto il suo tempo, e di cui si conserva soltanto un piacevole ricordo. Il sesto film della serie ci catapulta allora nei lugubri saloni di una villa gotica, abitati da una ragazza disabile (Fiona Dourif, figlia di Brad, che qui ricompare in carne e ossa in alcuni efficaci flashback rivelatori) e da alcuni suoi misteriosi parenti dalle mire assai controverse. Sembra La scala a chiocciola (The Spiral Staircase, 1946), ma poi una bambola Tipo Bello giunge per posta, mittente sconosciuto, e qualcuno comincia a morire. Chucky è tornato, ma questa volta per un motivo più nobile: riunirsi alla Famiglia per antonomasia, non la sua, ma quella di una persona che in un oscuro passato, tanti anni prima, ha avuto molto da condividere con l’allora strangolatore Charles Lee Ray. Il bandolo della matassa si sbroglia, e come in un delicato gioco di prestigio, Don Mancini, sceneggiatore, regista e incantatore, spiega con grazia certosina ciò che le pellicole precedenti avevano soltanto supposto, fino a quando un disegno preciso e rigoroso non emerge dai molti tasselli disseminati dal primo, indimenticabile La bambola assassina.