Martina Monti: un’italiana a Los Angeles

Una giovane attrice nella Mecca del cinema

Un giorno ricevo una mail da Martina Monti. Lei è una giovane attrice di Monza, che mi racconta della sua avventura nel mondo del cinema. Anzi nella Mecca del cinema, a Hollywood. Tre anni fa, ha mollato gli ormeggi dall’Italia per lanciarsi in questa esperienza, da sola, senza agganci o particolari entrature, armata solo della sua volontà e determinazione. Quindi, una con le palle (scusate il francesismo). Mi è subito sembrata una vicenda, la sua, degna di venire approfondita. E non mi sbagliavo…

Martina, la tua mi pare una storia interessante e abbastanza atipica. Cominciando dal principio: come è successo che da Monza tu sia “volata” direttamente in America, nella Città degli Angeli, a L.A. per fare l’attrice? Non capita spesso…

Avevo già deciso che volevo trasferirmi in America per studiare cinema, quando ero al liceo. Quindi, stavo iniziando a pensare a quali scuole potessi frequentare in Italia, come preparazione di base, diciamo, prima di affrontare un trasferimento. In Italia non ci sono scuole di recitazione per cinema, che era quello che interessava a me specificamente. Del resto, però, non è che potessi decidere d’amblé di trasferirmi negli Usa, così, facendo un salto senza rete. Il mio piano era procurarmi una formazione  in Italia, imparare bene l’inglese e solo a quel punto trasferirmi in America, con un permesso. Ci sono voluti alcuni anni, in cui mi sono laureata, ho perfezionato la lingua e ho seguito altri step, per arrivare preparata alla trasferta americana…

Ti sei laureata al DAMS?

Sì, e nel frattempo ho seguito un Erasmus per un anno, ad Amsterdam, che mi è servito anche per mettere a punto il mio inglese. Ho frequentato, poi, lo IULM, un corso di sceneggiatura per il cinema e, successivamente a questi studi, ho lavorato per qualche mese con la casa di produzione Fandango. Sempre, però, con l’obiettivo primario di trasferirmi in America. E a un certo punto, tre anni fa, ho fatto questo “grande salto”, arrivando a Los Angeles, dove ho cominciato a studiare alla UCLA recitazione per il cinema. E a dicembre dello scorso anno ho ottenuto il permesso per lavorare, sempre nell’ambito del cinema.

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I problemi logistici che hai dovuto affrontare immagino non siano pochi…

Beh, sì… è ovvio che in generale tutto è abbastanza complicato, qui. Ci sono le questioni legate al visto, c’è il problema della lingua e ci sono anche altre faccende che in America assumono una dimensione del tutto diversa dalla nostra. Ad esempio, le distanze: a L.A. ti sposti solo in macchina e senza auto è impossibile vivere. Anche per andare al supermercato, tanto per dire, bisogna prendere un’autostrada. Quindi, devi abituarti a pensare: “Ok, oggi ho lezione e per andarci devo guidare per un’ora!”. Se mi fossi trasferita subito dopo aver preso la patente, non so se ce l’avrei fatta. Adesso è diventata una cosa normale, ma all’inizio era molto più complicato.

Quindi, frequenti la UCLA, la termini con successo e poi…?

Dopo avere finito la scuola, devi capire cosa fare, come muoverti. Perché non basta dire a te stessa: “Ok, adesso sono a Los Angeles…”.

E tu che hai fatto?

All’inizio, ho cominciato a muovermi partecipando a dei provini, senza l’aiuto di un agente, perché è abbastanza semplice trovare provini per cortometraggi, anche da soli. Perché, tra l’altro, per trovare un agente serve avere del materiale da mostrargli. Un agente non consiglierebbe mai una persona che non ha nessun credito, dei lavori in curriculum. Per cui, da gennaio di quest’anno, mi sono messa a fare provini per cortometraggi e ho collezionato un po’ di materiale, sufficiente per poter mostrare la mia recitazione. E a maggio, dopo qualche mese, sono riuscita a trovare sia l’agente, sia il manager e adesso sono affiancata, professionalmente, da queste due figure, che mi promuovono e mi danno consigli. Non si richiede un enorme esperienza alle spalle, per trovare un agente, ma appunto, bisogna avere qualcosa di concreto da mostrare. Non basta dire: “Vabbè, io adesso ho finito di studiare ed eccomi qua!”. Ma avere un agente è essenziale, anche se non deve essere necessariamente un agente così importante, che finirebbe per non seguire un cliente all’inizio di carriera… Intendo dire che se anche io riuscissi, per qualche ragione, ad avere un agente importantissimo, rischierei poi, comunque, di non essere considerata all’interno di un’agenzia, in cui ci sono, faccio per dire, Brad Pitt e Robert de Niro.

La competitività è molta, lì?

A Hollywood c’è davvero tantissima competizione… proprio tanta. Ci sono provini ai quali partecipano 3000 persone e poi ne viene presa una; quindi, ovviamente, dal punto di vista pratico c’è molta competizione. Perché sono tantissime le persone che vengono qui da tutto il mondo, per riuscire a sfondare nei cinema e spesso sono persone valide, che , invece di stare nel loro Paese scelgono di trasferirsi in America. Quindi si tratta di persone anche fortemente motivate. D’altra parte, se è vero che la competizione è alta, è altrettanto vero che le opportunità che si offrono  sono tante: ci sono provini continuamente, tutti i giorni. Però, è un sistema che ti porta ad essere mentalmente competitivo, questo sì.  Me ne accorgo con me stessa quando magari capita che una mia amica mi dica che avremo lo stesso provino. È l’altra faccia della solidarietà: qui tutti cercano un po’ di aiutarsi l’uno con l’altro, ma sono anche tutti un po’ uno contro l’altro.

 

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Torniamo un attimo ai cortometraggi. Tu ne hai girati parecchi ormai e mi dicevi che accedere ai provini lì è più semplice, perché non serve avere per forza un agente

Nell’ultimo corto che ho girato, due settimane fa, e che si intitola Long Distance non ho fatto il provino perché il regista è un ragazzo per il quale avevo lavorato (ho fatto delle traduzioni dall’inglese all’italiano di alcuni suoi copioni) e quindi siamo diventati amici: lui ha scritto questo cortometraggio, più o meno ispirato a me, dandomi poi la parte. Per l’altro ruolo (perché sono due i personaggi principali) ha invece fatto dei provini, ricevendo qualcosa come 900 candidature. Questo per dirti che anche per un cortometraggio, 900 persone hanno voluto partecipare, anche se non si tratta di un film importante. Quindi, anche per i cortometraggi, in realtà, di competizione ce n’è molta. Ed essendo accessibili anche senza un agente, ci sono anche tantissimi attori che, vedendo l’annuncio ci si buttano.

Pagano, per i contrometraggi?

Per quest’ultimo, sì. Gli altri non pagano, mediamente. Certo, la crew, di solito la pagano. Difficile trovare uno che lo faccia gratis. Però per gli attori, insomma… a volte mi capita di essere pagata, a volte no.  Per un’attrice agli inizi sono comunque esperienze, quindi, se il cortometraggio mi piace e ritengo che sia un buon prodotto, valido, accetto; se qualcuno mi propone un cortometraggio, in cui però il copione non è il massimo, allora magari evito di farlo, se non è pagato. Seleziono in questo modo.

Di che tipo sono i cortometraggi che hai fatto, Martina? Sono cortometraggi di genere? Più o meno su che tematiche vertono?

Credo di aver fatto un po’di tutto, tra i cortometraggi; quindi, la commedia, il drama, anche l’horror, poi ne ho girato un altro che è più o meno di genere thriller-tensione. Quindi diciamo molto vari, e molto vari anche i personaggi interpretati.

Ma tu hai un genere che preferisci?

Mi piace il drama, però dipende anche dal personaggio che interpreto; il mio interesse è più rivolto alla parte che interpreto che al genere…

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Ora so che hai preso parte anche un lungometraggio…

Sì, ho finito di girare da pochissimo questo film, che si basa sulla storia di Peter Pan, rivisitata e ambientata a Los Angeles, nei giorni nostri. Si intitola Blue Moon Romance. Io ho avuto un po’ di un di giorni sul set, tra agosto settembre. È stato molto interessante, proprio perché è stato il mio primo lungometraggio. Adesso lo stanno montando, quindi ci vorrà ancora un po’ per vederlo. Sono contenta, mi è sembrato un buon passo in avanti.

Tu non avevi avuto esperienze dei set italiani?

Non molto. Perché avevo studiato al DAMS e poi ho fatto sceneggiatura, quindi no. Però, ho lavorato per una casa di produzione, quindi un pochino ho visto come funziona l’ambiente italiano… Come ti ho detto, avevo già il progetto di trasferirmi a Los Angeles ma volevo, prima, trovare una scuola di recitazione in Italia, per avere una base. In Italia, però, praticamente non ce ne sono scuole di recitazione per il cinema e quindi il problema era: “Come faccio a trovare un agente, se l’agente richiede dell’esperienza e una scuola e io non ho studiato?”. Ricordo che parlai con un agente, in Italia, che mi disse: “Io devo vedere che tu hai studiato recitazione”… Ma dove? E allora gli risposi: “Vado a Los Angeles, perché qui non so dove andare”. C’è il Centro Sperimentale, che è l’unica scuola e poi, comunque, mette a disposizione pochissimi posti. Mediamente, le selezioni sono difficili, a meno che non si abbia qualche conoscenza… cioè, mi è stato detto da persone che conosco che “selezionano”…. quindi figurati… conoscenze dirette e cose del genere…

Non so come sia la situazione in America, ma posso immaginare che sia diversa, cioè che ci sia una professionalità maggiore, una “serietà”, anche, maggiore, un approccio differente…

Io ho notato questo: allora, è ovvio che in America ci sarà anche chi è figlio di un attore famoso e ha la strada spianata, ma succede dappertutto… Però, ci sono tanti attori che arrivano al successo e non provengono da famiglie di attori, né hanno particolari conoscenze e agganci. Non voglio scomodare il concetto del “Sogno americano”, però credo che una parte di vero ci sia, in questa definizione. Qui, se una persona si impegna e ha del talento, può fare strada ed essere riconosciuto. In Italia, quello che ho notato, è che è un po’ più difficile che questo accada…

Già, il sistema italiano…

Insomma, preferisco un posto dove non vuol dire che sia facile farcela, ma se ci metto l’impegno, ottengo anche dei risultati.

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Sul set di Seen

Parliamo allora di Seen, un cortometraggio che nasce come tuo progetto. Lo hai scritto e lo hai interpretato. Si parla di violenza sulla donna… Mi è piaciuto molto, per varie ragioni: non è né banale né ovvio e introduce alla fine la recitazione come arma di verità…

Sì, ci sono anche degli aggiornamenti su Seen, che ho scritto l’autunno dell’anno scorso e poi ho iniziato a girarlo a febbraio, con la regia di Olivia Martini. È stato selezionato in vari festival e ha anche vinto dei premi: sta andando bene. Quattro nomination e tre premi. E ho vinto anche un premio come migliore attrice.

Quindi tu sei comunque anche interessata alla scrittura, evidentemente, non solo alla recitazione: hai dei progetti e delle cose che hai scritto che stai portando avanti?

Considerato che questo progetto sta andando bene, vorrei continuare a scrivere qualcosa, magari cortometraggi. Ovviamente, un film lungo più che altro avrebbe problemi di budget, cioè se anche lo scrivessi, poi bisognerebbe finanziarlo. Se faccio un cortometraggio devo finanziarlo io, quindi è già più fattibile. Io prima scrivevo narrativa, quando ero in Italia. Ho pubblicato tre storie brevi, ma ho scritto anche tanti romanzi, inediti; non ho neanche provato a pubblicarli perché ero troppo piccola. Quindi, ho sempre scritto, da quando sono adolescente. Seen è stata la mia prima sceneggiatura, tra l’altro scritta in inglese, e si basa molto sul dialogo, quindi doveva essere un inglese un pochino più colloquiale. Per cui, l’ho fatto leggere a qualche amico americano per vedere se ci fosse qualcosa che suonava artefatto.

Giusto per capire, un corto come il tuo, più o meno (tu mai detto che l’hai autoprodotto e l’hai autofinanziato) quanto ti costa farlo lì, grossomodo?

Seen non è costato troppo, perché è un corto, diciamo, molto base e non ci sono effetti speciali. Come budget eravamo sui 2000 dollari circa. Ovvio che ci sono corti che magari hanno un budget di 10.000, però è già tanto… Quando uno scrive una storia, deve anche pensare che non può creare una scena a Times Square a New York. Quindi, le location che abbiamo usato sono un po’ la UCLA, dove ho studiato (ho dovuto pagare il permesso, ma non troppo) e poi location interne… per cui uno magari ti dice: “Ok, puoi girare a casa mia!”. Per la post-produzione, per il suono e per il colore un po’ di soldi sono andati. Naturalmente, queste persone le ho dovute pagare.

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Tu hai fatto anche delle figurazioni, non so come le si voglia chiamare, in produzioni maggiori. Lì come funziona la cosa?

Sì, si tratta di figurazioni, piccole scene in cui sei inquadrato. Le ho inserite nel curriculum come cose extra. Sono comunque esperienze utili. Per quelle, c’è un’agenzia separata, che si occupa solo di questo tipo di ingaggi; quindi, hanno tutto il mio profilo con le mie foto, in diversi tipi di look, tutte le mie informazioni, misure, etc. cose che io farei, cose che non farei; c’è tutto un profilo. Loro inviano la proposta ai casting directors etc. Quindi, in questo caso, non devo fare un provino, ma c’è l’agenzia che se ne occupa e mi candida. Queste, secondo me, sono buone esperienze all’inizio della carriera, perché è utile vedere i set più importanti, capire come funzionano i set grossi con attori famosi… Mi sono trovata, per esempio, con Adrien Brody, con The Weekend, il cantante, e  Jenna Ortega. Può capitare che ci siano momenti in cui puoi interagire anche con loro, perché, per esempio, nella sit-com Curb your Enthusiasm c’era l’attore protagonista che ha interagito con me nella scena. Non ho un ruolo, però appaio, in qualche modo. In un altro caso, per esempio, ho girato in una prigione vera, cioè l’hanno sgombrata apposta; c’erano dei detenuti che hanno lasciato la sezione in cui noi stavamo girando. Lì non avevo battute, però, comunque avevo dieci secondi che erano solo su di me: c’è un pezzettino in cui si vede solo la mia faccia… è una piccola figurazione, ma gratificante. Dovevo utilizzare il telefono della prigione (di quelli attaccati al muro) e far finta di parlare con qualcuno. Sono esperienze interessanti, come ho detto, soprattutto all’inizio della carriera, perché si può vedere come funzionano i set, quelli davvero grandi, con un sacco di gente, un sacco di attori famosi, un sacco di persone che ci lavorano. C’è una serie che si intitola Winning time, sui Lakers degli anni ’80, quella con Adrien Brody. Ho potuto vedere come viene girata una partita di basket sui set. C’era il direttore della fotografia coi pattini, che andava in giro e seguiva le persone… È interessante perché, se lo vedi, sembra di seguire una vera partita, ma ovviamente è tutto a pezzi, messi insieme.

Di provini se ne fanno di più per il cinema o per le serie, attualmente?

Prima, principalmente più per il cinema. Adesso il problema è che pur avendo l’agente che invia il mio profilo, abbiamo lo strike, e quindi, in realtà, le serie più importanti sono bloccate. Quando ho firmato con l’agente, eravamo già in questo casino, quindi, adesso bisogna vedere come evolve la situazione, perché per adesso non posso fare un provino per una serie famosa, perché quelle sono bloccate. Ma è un fatto che le serie hanno preso più piede, e per un attore riuscire ad avere una parte in una serie è molto più conveniente, perché ci sono più episodi. A me piacciono entrambi, cinema e serie, non ho preferenze.

Ok c’è qualcos’altro che ti preme dire su qualche lavoro che hai fatto o su qualche progetto? Le domande sarebbero tante, ma è proprio interessante questo aspetto di un’attrice italiana che va a studiare e a fare carriera in America perché là obiettivamente ci sono delle prospettive professionali maggiori.

Quando sono arrivata a L.A., mi sono sentita spaesata per il mondo di Hollywood, perché comunque è un’industria molto complessa e all’inizio uno deve capire talmente tante cose: come le cose funzionano e conoscere persone…

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Le conoscenze sono fondamentali? Cioè capire come muoversi, chi poter contattare, etc.?

Quello che conta è crearsi una rete di conoscenze, anche con persone del proprio livello, magari leggermente sopra. Quindi conoscere i registi, conoscere sceneggiatori, conoscere persone con cui fare dei progetti insieme. Io, con un progetto, ho conosciuto persone alla UCLA, altre che ho trovato fuori dalla scuola, altre ancora tra i miei compagni che volevano partecipare. È utile creare più conoscenze possibili e avere una buona rete.

Ci sono italiani che tentano di fare la tua stessa esperienza, lì a LA?

Qualcuno, non tantissimi. Non è che io vada a cercarli di proposito. Conosco qualche italiano, però non tantissimi.

In bocca al lupo, Martina!

Grazie, crepi!

(Un particolare ringraziamento a Matteo Burburan)