Stacy
Gianni è uno scrittore che ce l’ha fatta. Ha ottenuto il successo che tanti suoi colleghi possono solo sognare passando dai libri alla sceneggiatura di serie TV. Il successo non è tuttavia privo di rischi e, durante un’intervista, Gianni si lascia andare pronunciando in un eccesso di spavalderia tre parole fatali che lo consegnano all’indignazione pubblica e portano la sua carriera verso il crollo verticale. La gogna mediatica e il pubblico che smette di seguirlo spingono Gianni oltre il baratro di un mondo in cui la finzione dei suoi fantasmi interiori si mescola con la realtà al punto che sembra impossibile separare l’una dall’altra.
Con Stacy, Gipi torna a misurarsi con il racconto di genere e questa volta l’esperimento riesce molto più felicemente rispetto a lavori precedenti come La terra dei figli. Qui la macchina narrativa è nel suo complesso ben più efficiente e fa girare una struttura complessa, ricca sia dal punto di vista dei movimenti che dei personaggi. Succede roba, e in un fumetto indipendente ciò non è mai scontato, anzi spesso è la mancanza di una moltitudine di fumetti sperimentali che si perdono nella propria ricerca senza restituire al lettore un’opera solida e compiuta. Cosa che Gipi fa, presentandosi con dei muscoli narrativi belli gonfi che modellano una storia lunga e articolata, ricca di elementi bilanciati a dovere. Personaggi, sottotesti, ritmo e struttura lavorano in grande sinergia rendendo la vicenda godibile davvero da tutti i punti di vista. I comprimari in particolar modo, se già di suo il protagonista funziona bene, interagiscono con grande funzionalità con ottimi risultati sia a livello di world building che di godibilità di una storia che scorre via con la velocità di una palla di schioppo pur senza perdere un minimo di atmosfera o di profondità.
Sì, perché Stacy è una storia che dice molto più di ciò che in prima battuta racconta. Gipi parla del lavoro del narratore ad alti livelli con competenza e con un’insight lucida ma non compiaciuta nel sezionare le dinamiche di un ambiente che dipinge sì con tutti i suoi difetti ma senza calcare inutilmente la mano. Solo chi ci lavora può dire se l’ambientazione di Stacy è realistica, ma agli occhi del lettore risulta sicuramente verosimile proprio in quanto tratteggiata con equilibrio e senza mai sbilanciarsi con carichi di emotività esagerati che rischierebbero di rendere un universo narrativo eccessivamente cartoonesco rispetto a come dovrebbe essere e come, fortunatamente, si rivela. Visivamente l’opera è buona, è un lavoro di Gipi con tutti i pregi e i difetti del suo tratto che, quando disegna in bianco e nero, finisce volente o nolente per perdere qualcosa rispetto a quando lavora con i colori. E ciò si vede anche dalla copertina, un pezzo davvero incredibile con tutti i numeri per lasciare un segno nel panorama del fumetto italiano con le lettere che compongono il titolo che bruciano come un laser sulla pelle del volto su cui si proiettano, un’illustrazione pazzesca che cattura l’occhio anche da lontano e che, più di ogni altro fattore esterno, rende giustizia all’opera facendoti venir voglia di sfogliarla. E per fortuna, visto che ne vale la pena.