The Dreamers e l’arte del restauro
Il capolavoro di Bertolucci torna in sala. Riflessioni sul film e sul restauro
Il fatto che un film come The Dreamers sia stato recentemente restaurato risulta di fondamentale importanza e interesse non solo per il film in sé; la salvaguardia della cinematografia di un grandissimo maestro come Bernardo Bertolucci; la possibilità di rivedere sul grande schermo uno dei suoi ultimi capolavori e godere della sua personale visione di un periodo storico fondamentale per la settima arte. Ma anche, e forse soprattutto, per come la deontologia stessa del restauro cinematografico sia oramai una pratica non solo tecnica ma filosoficamente, moralmente ed eticamente fondamentale per la natura stessa dell’arte cinematografica.
Il film si svolge durante le travagliate giornate parigine di quel lontano febbraio – aprile del 1968 che fece conoscere al mondo intero non solo la Cinémathèque française, ma anche uno dei suoi creatori, Henri Langlois (gli altri erano Georges Franju e Jean Mitry – sic!). Tre ragazzi (Louis Garrel, Eva Green e Michael Pitt) vivono la propria personale vicenda di emancipazione emotiva, sessuale e culturale chiudendosi in un decadente ma affascinante appartamento parigino (lasciato “libero” dagli adulti giudicanti) e osservano la rivoluzione da dietro le finestre, come fosse, appunto, un film. I tre volutamente citano – e Bertolucci assieme a loro — copiano, imitano, attraverso un tenero manierismo adolescenziale, i capolavori del cinema del passato e il loro incestuoso ménage a trois ricorda e ammicca a quella cinematografia novella che con opere come Bande à part segnerà l’inizio di una nuova era.
Interessante da notare come proprio la Cinémathèque e Langois in particolare, inaugurino la prima importante stagione di consapevolezza, in merito alla salvaguardia e alla conservazione delle pellicole cinematografiche. Pare che il motivo per il quale Langois fosse stato destituito, dall’allora ministro Malraux (motivo che scatenò le proteste in piazza), fosse proprio la malagestione della Cinémathèque. Langois collezionava e proiettava pellicole di tutti i tipi: dal western al musical, dal film americano a quello russo, dalla commedia al documentario. Pare avesse, come una vecchia gattara, pellicole e pizze sparse in tutta la sua casa, in cucina, sotto le coperte. Fortemente contrapposto al rigore di un approccio tecnico e scientifico di catalogazione dell’inglese Ernest Lindgren direttore del National Film Archive di Londra, egli tuttavia, nella sua sregolatezza, ha “salvato” molti film dall’oblio.
Solo verso la metà degli anni Settanta e Ottanta, con il restauro scientifico (il passo successivo alla conservazione), l’intellighenzia cinematografica – e non solo – si rende conto della indispensabile importanza dell’operazione e di come quasi l’80% del cinema muto, ad esempio, sia andato definitivamente perduto a causa, tra l’latro, della noncuranza della conservazione e del restaurato. Il cinema non è più un’arte “giovane”, anche se sempre giovanile. Come una bella donna, che si avvicina alla vecchiaia, lo scibile cinematografico va preservato, tutelato e custodito e poi ancora, riprodotto.
Perché il cinema, fisiologicamente, è un’arte “duplicabile”. Sia perché va duplicato il negativo in positivo; sia perché le copie appunto, si possono visionare contemporaneamente in diverse parti del mondo; sia perché, la meccanica tecnologia del restauro prevede il riconsegnare una copia restaurata in 4K. E ancora, implicitamente, il meraviglioso film di Bertolucci lo sottolinea attraverso la dolcissima l’ingenuità culturale dei tre giovani cinefili, che nudi (quindi purissimi) giocano a riprodurre le scene dei loro film preferiti o immaginare nuovamente l’arte per eccellenza (Eva Green come la Venere di Milo è uno spettacolo artisticamente sublime).
Le fasi del restauro sono sei e prevedono: la riparazione, la scansione, la comparazione degli elementi, il restauro digitale, la correzione colore e la restituzione (ristampa del negativo o versione digitale). Apparentemente sembrano tutte fasi molto “tecniche”, e molte lo sono, ma, come illustra bene Davide Pozzi, dal 2006 direttore del laboratorio di restauro cinematografico L’Immagine Ritrovata (ente che ha curato, tra gli altri, il restauro in 4K del film, in collaborazione con Recorded Picture, a partire dal negativo originale), si rischia di toccare delle corde etiche, appunto, che azzardano di deturpare la natura decisamente imperfetta di quest’arte in evoluzione… Basti pensare alle porcate che ha fatto Lucas – e che pare voglia fare ancora – appena ne ha avuto, tecnologicamente, la possibilità.
Lo stesso regista, a volte, appunto, coinvolto nel restauro del proprio film, ha la tentazione di stravolgerne la color correction, per esempio, o l’ordine delle scene montate, perché obbligato, all’epoca, dal produttore draconiano di tagliare la pellicola, come da accordi distributivi. Il restauro, dunque, si dovrebbe imporre delicatamente e deontologicamente sui touch-up delle pellicole e dei film. Mi piace pensare al cinema come ad un’arte femminile. E tutte le donne son diverse, hanno delle età e delle caratteristiche diverse, alle quali servono attenzioni diverse … ma a nessuna piace – veramente – diventare un’altra persona.
Si tratta di un’arte, e qui mi riferisco al restauro, anche molto meticolosa, scrupolosa, e quindi costosa. “Investimenti vanno dati ai laboratori, da tutti coloro che ne hanno la possibilità”, sarebbe il mio appello, anche se ai grandi numeri dell’economia questa pratica non viene del tutto compresa. Ma, come gli “ignoranti” genitori dei tre ragazzi, lasciano loro, mentre dormono nudi avvinghiati, sul comodino, quell’ultimo assegno… Così si dovrebbe investire in questo tipo di “cinematografia ritrovata”, senza farsi domande e senza pretendere risposte. Il vero sogno avviene poi sullo schermo, quando tali capolavori, di tali maestri, come le meravigliose sculture di Michelangelo, si potranno ammirare nei secoli e nei secoli.