Dune – Parte due
2024
Dune – Parte due è un film del 2024, diretto da Denis Villeneuve.
Tremano le dune di sabbia all’arrivo dei vermi e fremono gli spettatori davanti allo spettacolo maestoso del cinema di Denis Villeneuve che, saggiamente, ha distribuito la vicenda del primo libro della saga di Dune in due film distinti che, tra l’altro, rispettano la divisione del romanzo, originariamente pubblicato in due parti: Dune e Il profeta di Dune. Questo ha permesso al cineasta canadese di prendersi i giusti tempi per raccontare quell’universo complesso e dettagliatissimo immaginato da Frank Herbert a metà degli anni ’60 e che così tanta influenza ha avuto sull’immaginario fantascientifico a venire. E Villeneuve lo ha fatto senza spiegoni pedissequi, ma affidandosi alla forza delle immagini, sontuose, potenti e impattanti, che scuotono lo spettatore purtroppo avvezzo ai blockbuster liofilizzati di questa epoca, conditi di battutismo forzato perché non si corra il rischio di annoiare un pubblico la cui attenzione media è quella di un reel di tik-tok. L’opera fantascientifica dell’autore di Arrival rinverdisce sapientemente la tradizione dei kolossal storici degli anni Sessanta in cui veniva impiegato uno stuolo di star, magari anche in piccoli ruoli carismatici, al servizio di una grande storia, che coniugavano spettacolarità, profondità e riflessione esistenziale. Pensiamo soprattutto, non a caso, a Lawrence d’Arabia, il cult di David Lean, amato da Spielberg, che riluceva di altrettanti paesaggi desertici, il cui protagonista aveva l’ambiguità e la profondità che ritroviamo in Paul Atreides (Timothée Chalamet). Entrambi divengono capi carismatici alla guida di un popolo del deserto che cerca riscatto, con la differenza che il tenente Thomas Edward Lawrence lo vive con un notevole senso di colpa, visto che le sue vittorie sull’impero ottomano saranno poi sfruttate dagli inglesi per scopi coloniali, mentre Paul Atreides diviene leader, prima politico poi religioso, della tribù dei Fremen del deserto per compiere in realtà una vendetta personale nei confronti degli Arkonnen che hanno sterminato la sua famiglia e il suo casato.
Ma la complessità del film di Denis Villeneuve non si esaurisce qui: il personaggio di Paul, che segue il viaggio dell’eroe (almeno nel primo romanzo), iter archetipico elaborato dal mitografo Joseph Campbell sulla base delle teorie junghiane, è lacerato tra la sincera volontà di aiutare il fiero popolo di Arrakis e la tentazione, secondo le profezie di cui la cultura Fremen è intrisa, di diventare un vero e proprio Messia, adorato dalle masse, a capo di quella che sarà una sanguinosissima Guerra Santa, così come le sue visioni gli predicono. Se pensiamo anche che quelle profezie sono state approntate dalle sacerdotesse Bene Gesserit nel corso di millenni di manipolazione simbolica e politica, la vicenda acquista un ulteriore livello di lettura: se quelle profezie sono state create ad arte, com’è possibile che Paul si trasformi realmente nel Messia? Basta bere l’Acqua della vita, ovvero la droga sacra (come nella tradizione esoterica di molti popoli, islamici e mediorientali, cui Herbert faceva riferimento)? È in questo che il film di Villeneuve restituisce intatta la contraddizione e la complessità del Dune di Herbert che, nella sua saga, tra le altre cose, esplorava il modo in cui politica e religione si mescolano pericolosamente. Tale complessità viene veicolata tramite una forma superba in cui lo spettatore si perde piacevolmente, come un viandante nel deserto di Arrakis. La fierezza selvaggia dei Fremen viene resa con cruda e schietta sincerità, non tralasciando dettagli che a noi civilizzati occidentali possono sembrare eccessivi. Il look delle astronavi, dei costumi, dei mondi (si veda il bianco-nero abbacinante di Giedi Primo, casa dei terribili Harkonnen) già di livello altissimo nel primo film, viene qui portato ad una ricchezza visiva impressionante. L’arrivo sulle dune di Arrakis, ripreso fuori fuoco, di un Paul col mantello al vento, ormai trasfigurato in ciò che è destinato ad essere, è qualcosa che nel tempo diverrà iconico. La musica di Hans Zimmer non commenta, ma vibra con la sabbia e con le emozioni dei personaggi principali. Chalamet dimostra una grande maturità attoriale laddove il suo personaggio attraversa una radicale e squassante trasformazione interiore. Ma tutto il ricchissimo cast è terribilmente in parte, anche in ruoli apparentemente marginali, nella tradizione dei kolossal di cui dicevamo all’inizio.
Accogliamo un’affascinante lettura contenuta nel bellissimo e documentato saggio di Paolo Riberi e Giancarlo Genta “I segreti di Dune – storia, mistica e tecnologia nelle avventure di Paul Atreides”, edito da Mimesis, cui pure rimandiamo per i numerosi riferimenti storici, religiosi e mitologici della saga di Herbert. Gli Shai-Hulud, gli enormi vermi della sabbia, leviatani del mondo di Dune, simbolo delle forze del Caos e dell’inconscio, irrompono nell’io cosciente di Paul e dello spettatore nel momento in cui il muro-scudo di pietra delle montagne che difendeva la capitale Arrakeen viene abbattuto dalle atomiche. Integrando nell’Io cosciente la forza vivificante, al tempo stesso distruttrice e generatrice (dai Vermi si ricava l’Acqua della vita), di tali emissari dell’inconscio la personalità di Paul può divenire completa e assurgere, nel bene e nel male, al ruolo di Kwisatz Haderach, il super-uomo architettato geneticamente dalle Bene Gesserit, o di Lisan Al-Gaib, il Messia dei Fremen. Attendiamo con fiducia l’adattamento del secondo romanzo, Il messia di Dune. Lunga vita a Usul Paul Muad’dib Atreides!