Road House
2024
Road House è un film del 2024, diretto da Doug Liman.
Ogni epoca, si sa, sforna sempre i propri miti. Ma se muscoli e sudore l’hanno fatta da padroni per tutti i nerboruti anni Ottanta, in una contemporaneità in cui le efebiche fattezze di un Timothée Chalamet e il gommoso aplomb di Adam Driver sembrano ormai aver cementato un nuovo canone di ani-mascolinità, rispolverare e per giunta rinfrescare un titolo così forzatamente (e forzutamente) eighties come Road House pare proprio un giochino che, cinematograficamente parlando, non sembra valere poi così tanto la candela. Un vero azzardo, dunque, quello che sin dall’ormai lontano 2013 è rimasto a bollire nel brulicante pentolone targato MGM, passando attraverso innumerevoli penne e altrettanti registici timoni prima di approdare, non senza parecchie perplessità, dritto dritto in casa Amazon; pronto per essere consegnato nelle scafate manone di un altalenante uomo d’azione come Doug Liman. A lui, infatti, è toccato infine l’onore (più che l’onore) di prendere letteralmente di peso il testosteronico cult diretto nel 1989 da Rowdy Herrington per trasportarlo dall’umida frontiera del Missouri fin nelle assolate spiagge delle Florida Keys; scaricando quasi interamente il peso di questa rischiosissima operazione sulle granitiche spalle di uno scultoreo e più che mai ombroso Jake Gyllenhaal, mai così pompato dai tempi di Southpaw.
Il suo Elwood Dalton altro non è, infatti, che il tipico duro con parecchie macchie ma senza appartenente alcuna paura: proprio quel taciturno e complessato Duro dal cuore buono ma dal pugno tutt’altro che tenero già macisticamente incarnato dal ben più fascinoso e compianto Patrick Swayze. Uno straniero dal glorioso quanto tragico passato da ex campione di arti marziali, il cui solo nome, unito ad una sana flexata di addominali, basta e avanza a far tremare le vene ai polsi dalla East alla West Coast. Colui che, non si sa bene come o perché, non deve essere nominato né tantomeno sfidato: pena finire con ossa, morale e autostima dolorosamente rotti. Un autentico schiacciasassi vivente, insomma; deciso tuttavia a disertare per un po’ gli ormai consueti scantinati del Fight Club per aiutare l’intraprendente Frankie (Jessica Williams) a gestire i fastidiosi problemi di ordine pubblico all’interno del suo frequentatissimo locale. Una storia che, a ben vedere, così come rimarcato dalla giovane librofila Charlie (Hanna Love Lanier) tanto somiglia alla trama del più tipico dei western, con tanto di liaison sentimentale con la bella dottoressa Ellie (una Daniela Melchior decisamente più credibile e “abbordabile” della fu procace Kelly Lynch) e inevitabile regolamento di conti con l’arrivista Cattivone di turno, deciso a gestire i propri loschi traffici e le altrettanto vigliacche speculazioni edilizie direttamente dal carcere grazie all’aiuto del viziatissimo figlio (Billy Magnussen) e di un possente quanto psicopatico galoppino (Conor McGregor).
Non è dunque solo il titolo a rendere Road House un ennesimo racconto metropolitano di rivalsa e giustizia a suon di nocche sanguinanti e zigomi tumefatti. Ma così come il suo tutto sommato immortale capostipite sono proprio la desolante bidimensionalità dei suoi personaggi-tipo e la reiterata dinamica di occhio-per-occhio, dente-per-dente, cazzotto-per-cazzotto a portare la complessità della narrazione a un consolatorio e certamente più che godibile grado zero, lasciando agli sporadici quanto didascalici flashback il compito di infondere un minimo di ciccia – oltre che di muscoli – dietro alla tormentata psicologia “espiatoria” del nostro Cavaliere della valle solitaria dall’inviolabile sixpack . Attraverso concitate sequenze di combattimento in pianosequenza – che, alla lunga, finiscono tuttavia per somigliare a un qual si voglia picchiaduro FPS – e una progressiva discesa nelle roboanti quanto fastidiose viscere di una CGI a tratti fin troppo posticcia, la solida seppur anonima regia di Liman non fa mistero nel voler indugiare su di una forma volutamente sotto steroidi piuttosto che su di un contenuto tanto basico quanto inevitabilmente efficace in un’ottica di puro e semplice mainstream. Non che la mascolina pellicola di Herrington osasse spingersi al di là di un mero giocattolone da pizza, Coca Cola e Multiplex, sia chiaro. Ma stavolta, grazie ad un minimo di verve e convinzione in più, si è saggiamente sventato il rischio di rimanere rinchiusi fra le accalorate quattro mura di un turbolento pub pieno zeppo di loschi e maneschi figuri, aprendo orizzonti e mentalità ad un’avventura usa e getta destinata a concludersi, se non a tarallucci e vino, quantomeno con un bel pirotecnico botto e una sana dose di catartiche botte.