Intervista a Luc Merenda

L'attore apre le porte della sua casa a Nocturno per una lunga e sfaccettata intervista
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Roma, 16 aprile 2024 – «Bisogna sapere che in 35 film girati dal’70 all’89 ho concesso una sola intervista». Difficile non credere a Luc Merenda, che ci ha accolti nella sua casa in Trastevere, per regalarci un excursus delle sue interpretazioni e della sua caleidoscopica vita. Non che non apprezzasse i giornalisti, ma correre ogni volta il rischio di essere paparazzato e subire intrusioni nelle proprio privato non era nel suo stile, non si è mai riconosciuto in questo tipo di atteggiamenti.

Non hai pensato che concedersi al jet set avrebbe potuto favorire la tua carriera?

In realtà fuori dal lavoro non frequentavo  nessuno di quel mondo, ero solo, diversamente da oggi che ho intorno a me un gruppo di persone che conoscono  il cinema, ed è tutto molto più facile. Ma finchè i film incassano tutto questo discorso non è importante. E la verità è che non ero entrato nel cinema per soffrire.

Quanto accetti la definizione di protagonista del genere poliziottesco?

Io ho girato film molto diversi, e un po’ mi  dispiace che tutti gli altri film che ho fatto, uno fra tutti Le monache di Sant’Arcangelo, non abbiano ricevuto la giusta attenzione; tra l’altro questo film ha avuto anche un cast di tutto rispetto, basti pensare a Anne Heywood, Ornella Muti, Claudio Gora, Pierpaolo Capponi, solo per fare qualche nome. Ma recitare nel ruolo di un poliziotto mi ha fatto capire e amare questa professione, per il coraggio e l’impegno di proteggere il popolo dai malviventi. Ovviamente farlo al cinema è più facile, se mi ammazzano in un film io il giorno dopo sono già resuscitato.

Facendo un passo indietro, come ti si è aperta, come nasce, la tua carriera da attore?

Ho ricevuto un’educazione dai miei genitori che resta il diploma più bello che  potessi conseguire. Dalla Scuola dei Gesuiti in Francia sono però stato cacciato, avevo vissuto un’infanzia in Marocco troppo libera, godendo la bellezza di spiagge chilometriche, della natura, per poter accettare una prigione seppur dorata come il collegio. Non che non avessi ricevuto regole, ma la vita ad  Agadir, in Marocco, era troppo piacevole e cordiale, e anche cosmopolita. Alla fine della scuola ho provato anche con l’Università, economia, ma lavorare era la  mia priorità, e sono diventato un ottimo agente pubblicitario, con un lavoro che mi ha portato in giro per l’Europa negli anni della protesta giovanile del ‘68, un movimento che ho idealmente condiviso e che considero molto importante per quegli anni, anche se poi si è nel tempo un po’ perso, anche a causa di quelli che  in Francia definiamo casseur, vandali pagati che nulla hanno a che fare con il vero spirito della lotta. Quando decido di andare alla Colombia University di NY per  un master di economia inizia la svolta.

E quando capisci che il cinema è il tuo futuro?

Diverse volte nel corso dei miei viaggi mi    avevano proposto il cinema, è successo anche a Capri, ma anche se può sembrare assurdo, io non mi sono mai accorto del mio fisico, non ho mai creduto di essere bello, e prendevo queste proposte con molto scetticismo. E  devo dire che poi ho avuto anche la benedizione di mostri sacri come Robert Hossein e Pierre Mocky. Ma è a New York  che le cose sono cambiate, una città così   artistica, movimentata, l’ho adorata. Ero partito con 300 dollari, ma a New York ce la puoi sempre fare. Un amico mi invita a lavorare in un locale molto rinomato e frequentato dal jet set sulla 69esima strada, a me servivano soldi per iscrivermi al Master che mi sarebbe servito per il mio lavoro di pubblicitario. Qui incontro una ragazza che vedendomi  mi invita a fare il fotomodello, il guadagno era buono, meglio del cameriere, decido di farlo: la verità è che  a New York ancora una volta il destino mi  ha allontanato dagli studi. Quando torno  in Francia, causa documenti rifiutati, ma sempre con l’idea di tornare presto a New York, non riesco a non accettare un   ruolo da protagonista nel film OSS117 prend des vacances (1970, Pierre Kalfon), la versione francese di 007. In realtà quando il regista mi ha chiamato, sono stato io a giocare d’azzardo, dicendo che avrei accettato solo se mi avesse offerto il ruolo del protagonista, e  lui lo ha fatto. E allora addio New York e subito dopo si parte per il Brasile (il film sarà Rapporto sulle esperienze sessuali di tre ragazze bene, di Walter Hugo Khouri, 1970).

Quando cominci a  frequentare film con ambientazione poliziesca?

Iniziai con un ruolo offertomi da Marcel Carnè in Inchiesta su un delitto della polizia, del 1971. Questo film per me ha   un valore speciale perché è stato proprio  durante le riprese che ho avuto una grande fonte di ispirazione assistendo a uno show improvvisato di Jacques Brel, che faceva parte del cast, che ha messo a tacere il pubblico con uno show eccezionale in un locale dove la gente forse era andata solo per rimorchiare o ubriacarsi: lì ho capito ancora una volta il valore della recitazione.

Hai incontrato e lavorato con tante attrici bellissime, di quali hai il ricordo migliore?

Sicuramente di quelle che risplendevano anche di una bellezza interiore: Ursula Andress, una persona deliziosa, Zeudy Araya, Martin Brochard e , tra le italiane, Valentina Cortese e Carla Gravina. Peccato che Ursula non voglia mostrarsi più al pubblico, così ho sentito, ma lo capisco. Dopo tanta bellezza non è facile  accettare i cambiamenti del tempo , e per me c’è stato un solo attore che è migliorato con gli anni anche esteticamente, ed è stato Sean Connery.

Quanto vale la bellezza nella vita?

Quello che posso dire di me, è che tutta  la bellezza non vale niente se non vi è il fascino che parte da dentro, e tra due individui può funzionare solo se vi è un’attrazione mentale: sono un po‘ animale, ma non bestiale.

Quanto deriva dalla tua educazione questo tuo modo di essere?

Tantissimo, sono stato educato ad apprezzare i valori interiori. Purtroppo l’essere umano può essere molto stronzo, ma tra l’uomo e la donna salvo sempre la donna, perché sarà per la sua funzione potenziale o reale di madre, o perché la donna da sempre ha visto i suoi  uomini, figli, compagni partire in guerra per poi diventare lei stessa infermiera. Amo la donna perché in realtà siete più  profonde di noi

E parlando alllora della figura femminile nel cinema, e alla luce della tua esperienza, cosa pensi del movimento #MeToo e di tutta la polemica da cui è scaturito?

Ho fatto parte del mondo del cinema dandomi sempre un limite, perché c’era un aspetto che non mi piaceva e soprattutto perché non ho mai voluto sacrificare la mia vita privata al gossip. Nei miei film della serie poliziottesca c’erano pochissime donne; in generale penso che l’uomo da sempre ha un po’ temuto la donna perché ha capito che era  più forte, gli anni della caccia alla streghe ci raccontano della paura delle donne. Il movimento lo trovo giustissimo, non esiste che si possa accusare una donna di essere consenziente solo perché magari entra nella stanza del produttore o del regista, o perché sono vestite in un certo modo. E devo aggiungere che il mondo del cinema francese ha preso la questione femminile  molto sul serio, vi è al momento molta attenzione su certi atteggiamenti che in passato hanno mortificato la professionalità delle attrici.

Hai quasi sempre rifiutato la figura dello stuntman nei tuoi film, preferendo tu stesso girare le tue scene d’azione. Come mai?

Si, e nel film La banda del trucido, 1977, con Tomas Milian, ho fatto dei salti molto   rischiosi, che mi hanno lasciato il segno, un bel 30% di invalidità per una bruttissima caduta avvenuta con le mani legate indietro dalle manette e schiantandomi a terra volontariamente per evitare di fare testa a testa proprio con er Monnezza: i presenti sentirono un   botto tanto forte che pensavano che come minimo fossi rimasto paralizzato.

Certo, ti esponevi a dei bei rischi, quale era la motivazione?

Nel caso specifico di questo film, mi ero   dato completamente anche perché c’era   una situazione di concorso emozionale molto forte: avevo ricevuto una telefonata che annunciava che mio padre  era molto grave e il giorno dopo sarei partito per Nizza, e avevo fretta di concludere e ansia di andare a dare l’addio a mio padre. In generale però, lo facevo un po’ perché mi divertivo, ma anche perché trovavo normale che, se un   pubblico mi seguiva, non dovevo sottrarmi a queste scene, per me era come consegnarmi completamente ai miei fans. E mi piace pensare che anche se il cinema non mi restituirà quello che mi ha tolto, in questo caso una parte della mia salute fisica, anche io non potrò  mai restituirgli tutto quello che mi ha dato

Hai qualche rimpianto  cinematografico?

Un rimpianto vero e proprio no, ma mi è dispiaciuto molto non poter accettare, perché incompatibili con impegni precedenti, le proposte di Claude Lelouche ed Henri Verneuil.

E ritornando al presente, cosa c’è dietro l’angolo per Luc Merenda?

Le proposte ci sono, ma come dicevo   prima, lavoro solo a certe condizioni. Oggi la mia situazione è migliore di quella   di quaranta anni fa , come dicevo ho un team che mi segue, anche se non ho un agente e non so se voglio averne uno. Ma  ho sempre bisogno che si instauri un rapporto di fiducia con il regista.

E come giudichi questa grande migrazione di attori dal cinema alla TV, soprattutto dopo il boom delle nuove piattaforme televisive?

Ho girato in passato miniserie e telenovele per la TV , e mi hanno un po’ oscurato la carriera cinematografica, ma  non è questo il punto, si può fare bene anche lavorando in televisione. Ricordo con orgoglio Disparitions, di Claude Barrois, del 1984 , Châteauvallon, del 1985, che mi ha dato una fama enorme che forse in quel periodo se mi fossi candidato mi avrebbero eletto presidente  della Francia ( con la regia di Paul Planchon), Tinikling ou ‘La madonne et le dragon’, un film televisivo del 1990 del  grande Samuel Fuller. Per me è importante interpretare un personaggio che mi piace e con un regista che mi piace, mai lavorare per lavorare, lavorare ad ogni costo. Non ho bisogno di troppi soldi per essere felice: se ho una donna che amo, ed è il caso, e posso mangiare,  andare al cinema, al teatro, leggere i libri (ne ha tanti da leggere, e si vedono, queste bellissime torri che giganteggiano nel suo soggiorno).

E adesso cosa bollle in pentola? Vedo un copione sul tavolo.

Ci sono delle proposte, studio i copioni per valutare. Ci sarebbe la possibilità di girare degli horror, ma io non li sopporto;   non che li disprezzi, ma proprio mi danno  fastidio, l’orrore mi fa orrore perché penso che il mondo, già minacciato da tanta violenza, non ne abbia bisogno. Lo  so che anche nell’horror bisogna essere bravi, anzi di più, ma non sono ancora riuscito a guardare un film di Dario Argento per come sono impressionabile ma, visto che questi copioni sono interessanti, può darsi che forse finirò per  farne uno, magari per curiosità.

 Dai, sarebbe bello, noi di Nocturno abbiamo un occhio di riguardo per gli horror, lo sai. E sinceramente ti ci vedrei.

Non prometto nulla. Il mio ruolo di cattivo  più cattivo era stato in Il conto è chiuso, dove avevo questa parte di antagonista a  Carlos Monzon, credo di essere stato molto bravo, ero un perfido che faceva le  cose peggiori con il sorriso sulle labbra.

E oltre agli horror, cosa altro c’è?

Ho avuto un piccolo ruolo nel prossimo film di Luca Barbareschi, Svenduti, con Donatella Finocchiaro e Bruno Todeschini, due grandi protagonisti. Luca  è un gran professionista, e questo ruolo nel suo film, anche se breve, mi ha dato molto. Ho avuto anche un ruolo per me molto importante e speciale, quello della Morte, nell’ultimo film  di  Francesco Barilli Il paese del melodramma, in cui appare anche il vostro Davide Pulici nelle vesti di un prete. Ho poi partecipato ad un noir di Marco De Luca, Buio come il cuore, in cui recito con Stefania Casini, Elisabette Pellini e Antonio Grosso.

Qual è l’aspetto più importante per te nel fare un film?

Fare un film è importante perché si fa parte di un gruppo, si sta insieme , e ci si   scambia tanta umanità. Per me questo è uno degli aspetti più rilevanti di questo mestiere. Sono rimasto positivamente colpito quando recentemente Mara Venier, in una intervista, ha ricordato la bella atmosfera che si era creata durante  le riprese del film Cattivi pensieri di Ugo Tognazzi, quando io alla fine delle riprese, ho portato un regalino a tutto il cast, di cui anche lei faceva parte.

E come dargli torto. Luc si congeda con l’affetto e e la signorilità che lo contraddistinguono, un uomo che lascia il segno; riceve una telefonata e prende il cellulare, dove ha per sfondo una foto che  lo ritrae giovanissimo insieme alla madre. Ce la “presenta”:  «è lei che mi guarda da lassù».