Memorial Giuliano Gemma
Domani, 2 settembre, avrebbe compiuto 77 anni.
Nel documentario-biopic che Vera e Giuliana Gemma hanno dedicato alcuni anni fa al loro padre, c’è una parte assai bella e curiosa che riguarda i rapporti di Faccia d’angelo con il Giappone. Che Gemma, nel paese del Sol Levante, sia stato una star assoluta, l’equivalente maschile, per fama, di Sofia Loren, era noto. Ma che il feticismo dei giapponesi si spingesse fino a creare, come ha fatto la Suzuki, una moto che portava il nome di Gemma, la Suzuki Gemma, e che la sua villa di Marino diventasse oggetto negli anni Settanta di un flusso incessante di pellegrini provenienti da Tokyo che si presentavano lì per fotografarlo in kimono, insieme alle sue due bambine, appunto Vera e Giuliana, lo scopriamo ora attraverso preziose immagini d’epoca che il documentario ci restituisce nella grana luminosa e un po’ sfuocata di un vecchio Super 8. In un altro filmato, sempre degli anni Settanta, a giudicare dall’aspetto dell’attore, Gemma accetta la sfida iperbolica e paradossale di un tizio giapponese seduto accanto a lui, a colpi di carte e freccette: si tratta di lanciare una carta da gioco per aria e infilzarla al volo con la freccetta contro una parete. Si comincia con un asso e si finisce su un dieci di cuori e Gemma vince con l’aiuto di altri tiratori, apparsi dal buio alle sue spalle, che lardellano di dardi la carta più alta. Una cosa più da wuxia che da spaghetti-western. Questo spot giapponese insiste sul concetto delle abilità di Giuliano Gemma, perché Ringo, in fondo, come Odisseo sul cui modello – almeno nel Ritorno di Ringo – l’eroe era esemplato, è polutropon, versutus. Un uomo abile, in sostanza: uno che, come Ulisse, sa lanciare con esattezza la freccia attraverso i fori delle 12 asce. Una volta Silvano Spadaccino ci raccontò di quando, a casa di Duccio Tessari, vedeva Ringo far volteggiare le pistole: estraeva, le roteava e poi le rinfoderava. «Faceva girare la testa…». Lo raccontava anche Fernando di Leo, aggiungendo che capitò che durante una di queste esibizioni, Gemma infilasse la pistola nei pantaloni e gli partisse un colpo. A salve, per fortuna, se no si sarebbe sparato via gli attributi. Invece se la cavò solo con qualche bruciatura.
«Una pistola per Ringo era un’idea completamente nuova per il genere, molto ironica… Il ritorno di Ringo invece era molto drammatico, ispirato all’Odissea… Forse mi ha divertito di più Una pistola per Ringo».
Ogni Ulisse ha un suo Omero. Quello di Gemma si chiamava Duccio Tessari, che lo inventò e gli ossigenò subito i capelli nel peplum Arrivano i Titani. Correva l’anno 1962: Gemma aveva già fatto cosine, particine, ma la grande messa in luce avvenne con questo film di Tessari, a proposito del quale un bell’aneddoto lo racconta oggi Federica Tessari: «La leggenda narra che papà si avvicinò a Giuliano dicendo: “Salve, io sono un regista”, e Giuliano rispose: “Salve, io sono un pompiere”. Aveva appena finito di scrivere il suo primo film, Arrivano i Titani, ed era disperato perché non riusciva a trovare un protagonista che lo soddisfacesse. E la sua ex moglie gli disse: “Ti ci vorrebbe un attore con una faccia così!”, indicando Giuliano Gemma che era lì a Porta Portese. Così papà lo convocò per un provino: fu un provino muto, in cui gli chiese solo di fare due salti mortali, un flic flac e… basta, è andata». In realtà, Tessari lo aveva già conosciuto e adocchiato nella Messalina di Cottafavi, prima dell’episodio di Porta Portese. A Gemma non chiedono di parlare molto nei primi film e, soprattutto, nei western. Bastano la sua presenza e la sua faccia. Una faccia d’angelo che spara come un diavolo. Per moltissimi bambini e ragazzini contemporanei ai fatti dello spaghetti-western, il genere non era Clint Eastwood – modello che funzionava per gli adulti – ma Gemma, cioè Ringo. Perché era più vicino come figura, come prosopopea, e per come Tessari dimensionava questo eroe nella filosofia più lieve e brillante, del gioco. «Tessari inizia Una pistola per Ringo, con Gemma che gioca alla campana – i cattivi si avvicinano – e giunto alla fine dei saltelli, li fa fuori. Beh, Tessari diceva: “Sto giocando: volete giocare con me?”. Assolutamente geniale: nessuno aveva chiesto così platealmente la complicità degli spettatori per un gioco, il western importato dall’estero», spiegava Fernando di Leo.
«Penso che tra tutti i miei film, Un dollaro bucato sia quello che ho fatto in minor tempo. Il regista Giorgio Ferroni, alias Calvin Jackson Padget, era bravissimo: lui si faceva gli storyboard, aveva già l’idea del montaggio e non perdeva un attimo di tempo, aveva il senso dell’azione, del ritmo. Un dollaro bucato lo girai con Ewelyn Stewart, donna bellissima, viso stupendo, con la quale ho fatto poi altri film, Adios Gringo, e uno di guerra».
E poi Gemma frequentava le donne, nei western, non era un pistolero solipsistico alla Eastwood. Quindi ci attraeva anche perché era il più possibile dei protagonisti di quel periodo. Delle sue partner, non ce n’è una che parli male di lui, lo portano tutte in palmo di mano. Ewelyn Stewart/Ida Galli rammenta, prima dei western, Il gattopardo, galeotto del suo incontro con Gemma: «Visconti per far fare a me la figlia di Lancaster e a lui quello che cantava, ci ha mandato per più di un mese a lezioni di piano, in modo che io riuscissi a muovere le dita in maniera coerente… E lui, Gemma, veniva con me, perché mentre io suonavo il piano lui cantava… nel film faceva un garibaldino che cantava». Gemma figurava in due scene del Gattopardo, ma una fu tagliata al montaggio e rimase solo il suo ingresso a casa Salina, insieme ad Alain Delon e Terence Hill. Il film più bello che girano insieme, lui e la Stewart, fu comunque Un dollaro bucato di Giorgio Ferroni, del 1965, un western vecchio stampo che sta esattamente nel mezzo dei due Ringo e che Mario Soldati – come ricorda Marco Giusti nel suo Dizionario del western – pregiava per la “commovente malinconia con cui è rappresentato il Sud dopo la sconfitta”. Ma negli studi Gemmologici è un titolo fondamentale anche per la presenza come coprotagonista/antagonista di Nazzareno Zamperla, stunt, maestro d’armi e attore legato a doppio spago a Faccia d’Angelo. A parte le decine di film fatti insieme e le altrettante scene di movimento e di azione organizzate con scrupolo e precisione millimetrica (tutte le loro scazzottate hanno, obiettivamente, una marcia in più, perché tessute e complesse come la tela di un ragno: non sono pugni e basta), la storia di questa amicizia inossidabile giungeva ad assumere toni e finanche ritualità di cameratismo guerriero, raccontatemi direttamente dalla voce di Zamperla che da quegli anni lontani aveva mantenuto l’abitudine di tagliare sempre i capelli a Gemma e viceversa. Come una storia di antichi soldati di Sparta.
«Neno Zamperla era bravo in tutto, era anche un ottimo spadaccino. Con lui avrò fatto una ventina di film, mentre con Benito Stefanelli cinque o sei. Quest’ultimo era bravissimo su tutto ciò che era violento, meno ironico di Zamperla nel creare le situazioni e le scene d’azione. Stefanelli era valido come attore soprattutto in I giorni dell’ira e Il prezzo del potere».
Nel documentario di Vera e Giuliana, Gemma racconta un aneddoto, a proposito del suo rapporto con gli stuntmen, che se è vero è fantastico, e se è inventato è ancora più fantastico. Un giorno, una delegazione di cascatori si presenta all’attore, su un set di un film che stava girando, domandandogli perché non si facesse mai doppiare nelle scene di movimento. Gemma li guardò, fece un salto mortale all’indietro, da fermo, e poi disse loro che se qualcuno fosse stato capace di fare una cosa del genere, lui si sarebbe fatto volentieri doppiare. Andarono tutti a mangiare insieme. Va aggiunto che nel documentario si è scelto di non usare la presa diretta per Gemma, ma di farlo poi doppiare da sé, con un effetto straniante e suggestivo, molto cinematografico. Forse un vezzo da star, per isolarsi e sottolinearsi rispetto al resto. Sta di fatto che funziona che meglio non si potrebbe.
«Sella d’argento venne fatto con pochi mezzi e tutto sommato era una vicenda ancora diversa dalle precedenti, c’era la storia del bambino: io dovevo andare a uccidere una persona che poi scopro essere un bambino. Per le scene d’azione avevamo a disposizione solo quattro acrobati, allora Lucio Fulci, con mano sapiente, girava tutta un’azione da un lato, poi io mi giravo e trovavo altri quattro uomini che poi erano gli stessi, vestiti in un altro modo e truccati diversamente. E lo spettatore non si accorge di niente».
Tornando al western. È legittimo sostenere che nel genere, dopo i Tessari delle origini, i film più riusciti dell’attore siano quelli girati al crepuscolo, sul volgere degli anni Settanta, cioè Sella d’argento di Fulci (ma lo doveva fare Tessari, in un primo momento) e California di Michele Lupo. Fulci è il miglior regista che abbia diretto Giuliano Gemma, il quale sosteneva di essergli corso dietro per anni allo scopo di riuscire a fare un film insieme. Anche se nel Dizionario di Marco Giusti si legge l’esatto opposto, che Fulci a Gemma non piaceva per la sua trasandatezza fisica e che lo aveva rifiutato come regista per un giallo – che sembra un bel po’ inverosimile. L’unica volta in cui ho incontrato Gemma – per una questione che aveva un background allo stesso tempo comico e drammatico – ebbi modo di vedere fisicamente la sella che era stata adoperata nel film. Pensavo fosse solo un oggetto scenico come tanti altri, mentre invece, perdio, era una sella davvero d’argento: sette chili di metallo prezioso cesellati da un indiano Sioux con 165 soggetti differenti. Venne costruita nel 1936 da una ditta di New York per una coppia di coniugi e poi, attraverso alterne vicende, era arrivata fino a Gemma, che l’aveva pagata un’enormità, e al film di Fulci. Un oggetto di grande valore non solo pecuniario ma artistico, frutto di un grande sellaio, spiegava Gemma, il quale possedeva anche un’imponente e impressionante collezione di speroni nel laboratorio-studio dove ci accolse, a me e a un paio di disperati che erano con me. Una delle cose che l’attore ripeteva più spesso, a proposito del film di Fulci, oltre al fatto che era stato girato incredibilmente bene, riguardava la presenza di Geoffrey Lewis, fortemente voluto dallo stesso Gemma. Strano, perché Lewis non è che fosse chissà chi, allora, se non un buon caratterista. Ma pare che lo avesse molto colpito la sua interpretazione in Fango, sudore e polvere da sparo.
«Nei Bastardi ho lavorato con Rita Hayworth, Gilda. Era ancora molto affascinante e glielo dicevo spesso, ma sembrava un po’ assente. A volte avevo l’impressione che le parlassi e lei non mi ascoltasse. Nel film interpretava mia madre e nella sua casa aveva appese alle pareti delle fotografie di lei da giovane. Kinski, che nel film era mio fratello, ce lo avevano presentato come un mezzo matto e un piantagrane, e invece si comportò perfettamente sul set e fuori. Mi ricordo che una volta gli dissi che lui era nato in questo secolo per errore, che avebbe dovuto vivere nell’Ottocento, in un castello. Mi disse che avevo ragione…».
Duccio Tessari ha, tra i molti meriti, anche quello di avere guadato il personaggio di Gemma fuori dal genere western, prima con Kiss kiss bang bang – Bacia e spara, una parodia in secondo grado dei film di spie (nel documentario delle figlie se ne mostra una scena doppiata in coreano: per dire la diffusività di questi film. Oggi in Corea nemmeno sanno che in Italia si fa cinema), e poi con un ottimo noir che qui conosciamo poco perché è sparito dalla circolazione, mentre all’estero, soprattutto in America, è notissimo e non più tardi di qualche mese fa la Warner stessa lo ha pubblicato in dvd: I bastardi, in inglese The Cats, del 1968. Faccia d’Angelo diventa un delinquente, fratello di Klaus Kinski che è ancora più delinquente e cattivo di lui ed entrambi hanno come madre Rita Hayworth. È una storia cruda, sanguinaria (genere: ti faccio tagliare i tendini della mano con un bisturi, perché tu non possa più impugnare una pistola; il trattamento lo subisce proprio Gemma da parte del fratello) ed è strano che Tarantino non l’abbia mai citato nelle sue disquisizioni italiofile sul bis, perché sarebbe perfettamente nelle sue corde. Nella versione originale, Gemma alla fine ammazza Kinski dopo un terremoto e viene a sua volta ucciso a fucilate dalla Heyworth, ma in molte edizioni quest’ultima parte è stata tagliata. Era la prima volta che Faccia d’angelo moriva in un film e il pubblico, evidentemente, non riusciva ad accettarlo. Nella chiave poliziesco-noir, l’attore ha dato poche prove di sé, ma quelle poche, riuscitissime. Un uomo da rispettare che girò per la regia del grande Michele Lupo nel 1972, accanto a Kirk Douglas e Florinda Bolkan, è una cupa storia di amicizia e tradimento ambientata in una Londra color dell’acciaio e sottolineata dalle musiche magistrali di Ennio Morricone. Gemma interpreta il trapezista di un circo e il circo era una sorta di sua seconda anima: tutti i circensi, infatti, hanno sempre considerato Giuliano Gemma uno di loro. Il rapporto con Douglas fu difficile, perché l’americano era basso e al Nostro toccava recitare con le gambe aperte per risparmiare al partner l’onta delle pedane. Però tra i due passa una corrente di intensità e complicità che riesce ad essere trasmessa dallo schermo. «In una scena mi doveva colpire con due pugni, nel buio di una stanza. E uno, al mento, mi raggiunse sul serio. La rifacemmo e di nuovo mi prese con un destro – un destro di Douglas era il destro di uno che da giovane aveva tirato di boxe. Gli dissi: “Non si preoccupi Mr. Douglas, non è nulla!”; e lui, dandomi una pacca sulla spalla, mi rispose: “Call me Kirk…”.» Il rammarico è che da noi il film sia sconosciuto e l’unico dvd da poco in circolazione faccia schifo.
«Ho fatto Vivi e preferibilmente morti insieme al mio amico Nino Benvenuti, che avevo conosciuto durante il servizio militare nei pompieri. Ci assomigliavamo anche un po’, vagamente, per cui qualcuno una volta mi scambiò per lui e mi fece i complimenti per una vittoria sul ring. Il film andò così e così…».
Gemma tenta anche a un certo punto la strada della coppia, sull’onda dei successi con Bud & Terence. Ma in coppia, in posizione gregaria, Faccia d’Angelo rende poco, sebbene gli incassi restino elevati. È esattamente il contrario di Terence Hill che in coppia carburava, mentre da solo era sempre fiacco, perché non aveva registri altri da usare – ora, da vecchio, s’è fatto prete buono e i preti buoni, forse per la grazia di Dio, funzionano. Gemma, invece, era tale da richiedere attenzione solo per sé su uno schermo e i ruoli in cointeressenza lo penalizzavano. Eppure, per sette, otto anni buoni, l’attore entra ed esce da giochi di coppia più o meno improbabili. Se Gemma/Mario Adorf di E per tetto un cielo di stelle di Giulio Petroni, Gemma/Nino Benvenuti di Vivi o preferibilmente morti di Duccio Tessari e Gemma/George Eastman di Ehi, amico, stammi lontano almeno un palmo di nuovo di Michele Lupo, convincono perché sono, alla fin fine, film di Gemma con presenze laterali prostetiche e quasi innocue, quando l’altra parte del duo diventa ingombrante come Bud Spencer di Anche gli angeli mangiano fagioli o come Tomas Milian di Il bianco, il giallo e il nero (che è addirittura un trio, perché c’è anche Eli Wallach), è forte la sensazione che Gemma si trovi in un contesto sbagliato, fuori posto. Nel documentario delle figlie, del resto, è indicativo che Bud, intervistato, tenda a parlare solo di sé e di Gemma non dica quasi nulla. Le parole rivelano gli uomini. Rimpiangiamo, invece, che Fulci non sia mai riuscito a concretizzare un western violentissimo e crudo per cui avrebbe voluto come protagonisti paritetici Giuliano Gemma e Tomas Milian.
«Valerio Zurlini era molto duro sul set, severissimo. Era lui il vero comandante, non io. Del genere che se qualcuno di noi si presentava con un bottone dell’uniforme fuori posto, ci faceva dei cazziatoni pazzeschi. Era, come ho detto, un comandante sul campo più che un regista».
Un capitolo a parte andrebbe inoltre dedicato al Gemma impegnato degli anni Settanta, dicitura con la quale si intende precipuamente il film fatto con Zurlini, Il deserto dei Tartari (1976). Nessuno voleva Gemma per quel ruolo, tranne Zurlini che si batté per averlo e mise i produttori davanti a fatto compiuto presentandogli l’attore semi-rasato con un camiciotto bianco e una giacca blu. La figlia Giuliana racconta che quando il padre si presentò a casa quel giorno, con un look siffatto, lei non lo riconobbe e si mise a piangere avendone paura. Il film, purtroppo, è brutto, pesante e noioso; e quel che è peggio non fa spirare il minimo refolo dell’aria arcana che circola nel testo di Calvino. Per l’attore comunque fu un traguardo: «In termini sportivi, era come essere arrivato a giocare in serie A, accanto ad attori come Vittorio Gassman, Jean Loius Trintignant, Max Von Sydow…». Per un Gemma “d’autore” – se vogliamo usare di queste diciture rozze e vecchie – allora assai meglio puntare sul dramma milanese firmato da Comencini Delitto d’amore (1974), che è quasi un lacrima movie proletario con una bellissima Stefania Sandrelli che muore consunta e Gemma, il quale l’ha sposata in extremis e parla in milanese con effetto aprosdoketon, che fa fuoco per vendetta contro il proprietario della fabbrica assassina. Tutto girato a Cinisello Balsamo, nel grigio e nel freddo, è l’optimum per coltivare una bella depressione autunnale. E meglio ancora il televisivo, per la Rai, Circuito chiuso (1979) di Giuliano Montaldo, che recupera Giuliano Gemma, con messa in abisso, dentro un film nel film (sono le scene del duello finale di E per tetto un cielo di stelle): ogni volta che in un cinemetto viene proiettata questa pellicola e l’attore spara sullo schermo, uno spettatore in platea muore colpito dalla pallottola. Un grande “giallo metaforico della civiltà delle immagini” che si iscrive tra i film apparentemente cancellati dalla faccia della Terra, se non fosse per una copia che gira tra gli intenditori ricavata da una vhs greca.
«Con Pasquale Squitieri ho interpretato in un breve lasso di tempo due personaggi antitetici, un tutore della legge e un criminale mafioso, nel Prefetto di ferro e poi in Corleone. È stata un’esperienza per me altamente istruttiva come attore. Squitieri era un regista fantastico, come lo era Damiano Damiani che mi fa rimpiangere, ogni volta che vedo Un uomo in ginocchio, il cinema italiano di genere…».
Però, i filmoni settanteschi di Gemma sono altri: sono i due mafiologici di Pasquale Squitieri, Il prefetto di ferro (1977) e Corleone (1978), più il primo del secondo, anche se Corleone ha il merito di avere dato il via alla stagione in cui l’attore si doppia da sé. Sono, benché al limite ormai superiore del decennio nel 1980, i due Damiano Damiani, Un uomo in ginocchio e L’avvertimento. L’ultimo titolo è interessante nella misura in cui ci fa vedere Gemma nella parte di un duro e cinico commissario, risarcendoci della totale latitanza dell’attore dal genere poliziottesco puro – tutto da capire se si fosse trattato di un’assenza volontaria, premeditata, o casuale. All’epoca dei poliziotti di ferro, Gemma faceva un sacco di altre cose, è vero. Ma anche Franco Nero e Fabio Testi facevano altro. Nessuno glielo ha mai chiesto, di questa mancanza, e adesso è tardi. L’uso della vera voce dell’attore è comunque uno dei tramiti, non l’unico, non il primo, ma nemmeno l’ultimo, alla buona riuscita di un film come L’avvertimento, del quale restano scolpite certe battute pronunciate da Gemma. Con quella voce: «Gente che scopa alle dieci di mattina, è gente strana, da non fidarsi…». Le cose che contano sono questi dettagli, perché il diavolo sta sempre nascosto nei dettagli. Il prefetto di ferro è un grande film, ma il doppiaggio di Giuseppe Rinaldi (peraltro magnifico), alla luce del perfettamente verosimile accento siciliano che Gemma sciorina in Corleone e in Un uomo in ginocchio, ci fa un po’ rimpiangere che Cesare Mori parlasse con la voce di un altro. Ricordo una cosa che mi disse una volta – e mi colpì – Rosalba Neri, a proposito del Prefetto di ferro: era orgogliosa che un collega come Gemma fosse riuscito a diventare protagonista di un film così prestigioso e che si fosse dimostrato perfettamente all’altezza della situazione. Amen.
Ci sono un bel po’ di titoli che ancora mancano all’appello nella filmografia di Giuliano Gemma, reperti rari e strani che è difficile placcare e che anche all’epoca quasi nessuno vide. Nel documentario delle figlie, ad esempio, Giusti parla molto bene di La legion saute sur Kolwezi, di Raoul Coutard (1979) e dice non soltanto che ci si era sempre sbagliati a pensare Gemma solo in funzione western, essendo lui efficacissimo anche nei film d’azione duri, ma che Gemma in francese (con la sua voce) funziona alla grande – e lo specimen mostrato nel documentario sembrerebbe dargli ragione. Attrae anche lo spagnolo Pajaros de ciudad aka Senza un attimo di respiro o Supermarket, di José Sanchez Alvaro (1981) che nel libro-intervista di Carlos Aguilar viene laconicamente definito “coproduccion muy peculiar che pasa injustamente desaparecibida” e Gemma chiosa che gli piacque girarlo perché il regista aveva le idee molto chiare. Non si riesce a capire di cosa tratti ma sembra sia una sorta di variazione sul tema di 1984 di Orwell. Altro mistero spagnolo fu El Acheco cioè L’agguato, un thriller girato a Madrid nel 1987 con la regia di Gerardo Herrero e presentato al Festival di Villadolid, che ebbe esiti commerciali disastrosi e non piacque a nessuno, a sentire Gemma.
«Il successo economico è stato importantissimo, perché io nasco povero. Aver passato una vita senza pentirsi di niente, aver fatto tante cose… essersela goduta, è molto importante».
La sera della morte di Giuliano Gemma, gli stati di Facebook si sono riempiti di ricordi dell’attore. Molti, in maniera devo ammettere sorprendente per chi scrive, non salutavano nell’ultimo viaggio Ringo o il westerner che ha influenzato l’immaginario di più di una generazione, ma il capitano Germani di Tenebre di Dario Argento. Ricordo di un tempo in cui essere scelti in un film di Argento era un privilegio e una benedizione e non, come ora, un marchio di infamia. Doppiato da Pino Locchi, («Io bevo solo in servizio!»), vestito di un completo verde pastello, nella perfetta pienezza della maturità, Gemma interpretava un personaggio laterale ma in certo qual modo persino più calamitante del protagonista Anthony Franciosa. Infatti c’era da rammaricarsi che alla fine, dopo la celebre scena della sovrapposizione delle sagome (complessa da realizzare perché Franciosa aveva le orecchie a sventola che rovinavano la sorpresa), Gemma finisse con l’ascia tra le scapole vibratagli dall’assassino. Argento, intervistato nel documentario delle Gemma, racconta che una volta l’attore andò a trovarli mentre giravano di notte, a cavallo di una Suzuki che gli avevano regalato i giapponesi, generando in tutti ammirazione e invidia. Era la Suzuki Gemma che abbiamo ricordato all’inizio…
«Dio creò gli uomini uguali. Ma il Cinema, come la Colt, li rese diversi…».
La fine di Giuliano Gemma, coinvolto in un incidente automobilistico dalla meccanica ancora ambigua – un frontale con’altra macchina guidata da un militare che era a bordo con il figlio: ma nelle ultime parole dell’attore, raccolte da un amico, salta fuori anche un misterioso motociclista, per evitare il quale Gemma avrebbe sterzato all’improvviso impattando con l’altro mezzo – è la nemesi congruente con un uomo che ha vissuto d’azione e che non avrebbe certo potuto terminare i suoi giorni in un letto, consunto da una malattia. Una morte che sembra il fotogramma finale di un film, l’epilogo di una storia, l’ultima storia, che non abbiamo visto per intero, ma che deve essere stata, di sicuro, quella più appassionante…