Fallout
2024
Fallout è una serie tv del 2024, ideata da Geneva Robertson-Dworet.
Come si realizza un buon prodotto audiovisivo tratto da un videogioco? Le major hollywoodiane da decenni si interrogano su questo quesito a cui la soluzione potrebbe portare nelle loro tasche innumerevoli quantitativi di risorse sfruttando anche quel settore così difficile da trasporre su grande e piccolo schermo.
Da anni tutti ci provano e in pochissimi ci sono riusciti, questo perché, riassumendo in soldoni, è estremamente difficile trasporre l’esperienza prodotto-utente e renderla fruibile sul grande schermo. C’è una storia, c’è una narrazione da seguire o, eventualmente stravolgere, ma parte dell’aspetto drammaturgico avviene con la partecipazione del consumatore. Poi con la serie tv di The Last of Us o il film d’animazione di Super Mario Bros è arrivato un punto di svolta e la scoperta – in tal caso – dell’acqua calda: il segreto è raccontare senza stravolgere e indirizzare il prodotto ad un certo tipo di utenza. The Last of Us ha aperto la strada, Fallout segue a ruota con notevole successo. In una terra post atomica, alcuni superstiti umani si sono rintanati in dei bunker chiamati Vault, vivendo una sorta di vita civile, democratica e in armonia con tutti mentre attendono che sulla superficie il tasso di radiazioni possa diminuire così da riprendere la vita come la si conosceva centinaia di anni fa prima dell’olocausto nucleare e lasciare così i bunker.
Nel mondo di Fallout si intrecciano tre storie: Lucy, ragazza che fugge preventivamente dal Vault per cercare suo padre, un ghoul che segue un incarico da cacciatore di taglie e un membro della Confraternita d’acciaio, un gruppo religioso-militare che seguono precisi obiettivi. Mentre ognuno segue il proprio obiettivo, tutti verranno a contatto con eventi secondari, atti a costruire il world builiding del mondo ricostruito dalle ceneri, ostile e violento, che per design e messinscena ricorda contesti aridi e western, conditi da quella violenza splatter utile a sottolineare come ognuno si sia riorganizzato come possibile, tra mutanti, radiazioni, predoni e città che si avviluppano secondo nuovi statuti. Fallout è lontana dall’essere una serie perfetta in termini di scrittura, come di strumenti tecnici e – in alcuni casi – di realizzazione di effetti visivi, make-up e affini, ma ha il valore unico di essere estremamente coinvolgente nell’accogliere lo spettatore – consapevole o meno della fonte videoludica – all’interno di questa storia. Fallout diventa dunque un grosso giocattolone seriale che nelle sue otto puntate accoglie il divertimento, la leggerezza, l’ironia e il cinismo, elementi importanti per evitare di cadere nella “classica” storia di sopravvissuti pregni zeppi di tristezza e disperazione.
Lo show lavora esclusivamente sull’esplorazione di questo grande parco giochi, dove ogni zona di questa Terra inedita è un’attrazione ricca di minacce, esplosioni, creature e misteri da approfondire. Il tono e il registro del ritmo non tradisce mai questo semplice obiettivo che, al netto di alcune voci entusiaste, rimane sempre molto semplice e diretto, ma non per questo poco interessante. È un obiettivo semplice quello che si porta dietro la serie, che trova il plauso della sorpresa seriale dell’anno nella misura in cui – forse – nessuno si aspettava qualcosa di così divertente e convincente.
Dal cinismo, alla satira sull’era nucleare come alla gestione del Sogno Americano e l’approccio della pubblicità e la sponsorizzazione del bello in un mondo in piena rovina. Tra le pieghe di Fallout si solletica anche la possibilità di fare un certo tipo di critica, velata nel videogioco ma sempre presente, che assume un ruolo ancor più importante nell’arco di queste otto puntate proprio nella capacità di mettere a confronto questo mondo post nucleare fantastico, con la nostra quotidianità. È un lavoro raffinato, a tratti debole nella struttura, ma funziona perfettamente. Un paio di accorgimenti in più che si possono migliorare in un secondo ciclo di episodi e Fallout potrebbe davvero diventare una sorpresa per quanto concerne i prodotti tratti da videogiochi e capire come trasporli senza snaturare troppo il senso dell’opera originale e riuscire ad adattarli al meglio per il piccolo come il grande schermo.