Il plenilunio delle vergini
Un gotico fiammeggiante per ricordare il grande Mark Damon
Nell’aprile del 1972, Paolo Solvay/Luigi Batzella aveva girato per la Virginia Cinematografica un western, La colt era il suo dio e dopo tre mesi, dal 31 luglio, era di nuovo in azione, sempre per la Virginia, sul set di Il plenilunio delle vergini, un horror, anzi un horror erotico, la cui genesi, a sentire quel che ne diceva Franco Gaudenzi, il quale faceva parte della compagine della Virginia con diversi altri soci (tra i quali Aristide Massaccesi), era strettamente collegata alla figura di Mark Damon: l’attore, da anni un habituée del cinema italiano di genere, aveva per le mani l’idea di una storia e, soprattutto, si faceva da tramite con un gruppo americano interessato a investire quattrini nel film da ricavarne. Vera o falsa che fosse la cosa e che gli americani davvero esistessero o che i fondi affluissero dalle tasche di Damon stesso, come opinava Gaudenzi, la produzione venne quadrata ed ebbe il via. Damon essendo magnificato addirittura in un doppio ruolo e dividendosi tra due fratelli gemelli. Nelle carte ministeriali, così come ai generici dell’inizio, il soggetto e la sceneggiatura non fanno menzione alcuna di Damon e riportano i nomi di Solvay e di Walter Bigari. Se il regista di San Sperate non aveva fino a quel momento alcun trascorso nei territori del gotico o circonvicini, ben diverso era il caso di Bigari, ovvero Walter Brandi all’anagrafe, ovvero ancora, come sappiamo, il “Dracula italiano”, vedette di diversi film negli anni Sessanta. E non è quindi un caso che Il plenilunio delle vergini fosse, come sinteticamente lo definiva Gaudenzi “un Dracula”. Nella versione americana, dal titolo The Devil’s Wedding Night, i crediti iniziali menzionano come sceneggiatori Ralph Zucker e Alan M. Harris, cioè Alan Marvin Harris, il vero nome di Damon. Mentre il soggetto da cui tutto scaturì sarebbe un The Brides of Countess Dracula scritto da Zucker con Ian Danby. Zucker pare fosse svizzero di origine, ma faceva parte di quella comunità di americani ormai gravitanti a Roma, con interessi nella produzione (e anche qui figura come esecutivo) e, soprattutto, nei doppiaggi e adattamenti dialoghi per le versioni inglesi, esattamente come Danby. Il giro del fumo era questo. Non stiamo comunque parlando di un copione concepito con chissà quali spinte propulsive eccentriche, perché, in buona sostanza, il focus è una simil Bathory, discendente di Dracula, dunque vampira, e tendenzialmente lesbica, che fa il bagno nel sangue di vergini sacrificate. E c’è, dall’altra parte, il doppio Damon protagonista.
Uno è Franz Schiller, archeologo, studioso, che subito è introdotto mentre compulsa dei vecchi volumi, nel suo studio, cercando testimonianze di un preziosissimo monile, l’Anello dei Nibelunghi, quello della Tetralogia di Wagner: e saccheggiano, gli sceneggiatori, un po’ di cose dall’opera e dal mito wagneriano, nel concetto che tale potentissimo monile è in grado di dare un immenso potere a chi lo possieda – è passato, infatti, per le mani dei più grandi condottieri della storia, Gengis Khan, Ivan il terribile, Attila l’unno –purché costui rinunci all’amore. Ma lo infiorettano diversamente: non dall’oro è ricavato l’anello, ma dalla pietra di un meteorite precipitato nei Carpazi, in Transilvania, ed ha l’aspetto di un rubino color sangue. Queste cose le racconta Franz al fratello Karl, che lo sorprende chino sui libri, salutandolo con una frase da Edgar Allan Poe. Franz gli sciorina citazioni dai classici che avrebbero fatto menzione dell’anello, da Yeudah, Giuda il principe, che redasse la Mishnah, al rabbi Tarphon, fino al sofista Sinesio, quello della Lode della calvizie, tutti concordi nel ritenere che il suo possesso avrebbe la forza di scatenare eventi prodigiosi. Ora, l’archeologo sa finalmente dove si trova questa pietra e intende recuperarla, non per altro fine se non per esporla in un museo. Franz nel film ha la voce italiana di Pierangelo Civera, Karl quella di Michele Kalamera. Il luogo è il castello di Dracula. Karl chiede al fratello se non tema i vampiri e Franz gli risponde, con un sorriso e con la frase di Eliphas Levi a definire la natura vampiresca: Sine vita vivens, sine morte mortuus: coloro che vivono senza vivere e sono morti senza esserlo. E gli mostra poi un potentissimo amuleto, da lui trovato in Egitto, un sigillo magico del dio Pazuzu (quello che sarebbe stato reso celebre dall’Esorcista due anni più tardi). La scena dopo lo vede già correre al galoppo alla volta della Transilvania, spiato tra le fronde dal sinistro Gengher Gatti (nella versione anglofona Alexander Getty), che volge poi lo sguardo direttamente allo spettatore.
Il paese nei pressi del castello si chiama Ladracu e, in spregio a tutta la cultura sparsa prima, ora seguono la traccia del Dracula di Stocker, quando Harker giunge alla locanda. Franz è un uomo brillante e simpatico e allorché prende una stanza, viene servito dalla bella figlia dell’oste, Tanya, Francesca Romana Davila, ovvero Enza Sbordone, che in quei mesi era sugli scudi con i decamerotici. Lei gli parla di una “maledizione del plenilunio”, in virtù della quale, ogni cinquant’anni, alla prima luna piena dopo il culmine dell’estate, spariscono delle ragazze che non fanno più ritorno. E proprio il presente è l’anno in questione – non l’abbiamo detto ma va da sé che la vicenda si ambienta nell’Ottocento (anche se nello studio, all’inizio, troneggiano nella libreria volumi della Treccani, di un secolo più tardi). Ma Franz è interessato solo a baciare la ragazza, dopo aver magnificato pure a lei le virtù dell’amuleto che lo protegge. La porta del palazzo di Dracula cui va a bussare Franz, il giorno dopo, è un dettaglio del Palazzo Borghese ad Artena (ma gli esterni totali sono a Balsorano), dove pressoché in contemporanea al film di Solvay (dall’inizio di maggio) Aristide Massaccesi, che qui era direttore della fotografia, avrebbe girato il suo decamerone Sollazzevoli storie, sempre per Gaudenzi e con la Sbordone vedette di uno degli episodi. All’ospite appare d’improvviso, alla porta, una Esmeralda Barros di inquietante fissità, che lo conduce dentro avvertendolo che la castellana, però, è assente e tornerà solo a notte fatta. Damon, lasciato solo, vaga per il posto, soppesa l’atmosfera, si accende un sigaro e, calate le tenebre, viene attratto da movimenti seguendo i quali adocchia la Barros all’esterno, sgusciante. La segue e arriva a una bara, aperta, nel giardino, in cui la servente è adagiata. Viva o morta non si sa. Va avanti infilandosi in una cripta sinistra, dove le porte si aprono senza che nessuno le tocchi e, infine, è ricondotto al castello dalle note di un armonium: a suonarlo è la contessa Dolingen de Vries, svelata man mano dopo un carrello verso la sua schiena, con il volto di Rosalba Neri.
Dolingen è nome ricavato da un racconto di Bram Stocker, L’ospite di Dracula (Dracula’s Guest) pubblicato la prima volta nel 1914 e sul quale si discetta se fosse o meno un capitolo eliminato dal Dracula: come che sia, si continua con i prestiti ricercati, che ovviamente nessuno degli spettatori di allora, come di oggi, riesce a cogliere. Ma ci sono e vanno segnalati. Franz, che si è spacciato come studioso di architettura, è subito mesmerizzata dalla padrona di casa, la corteggia smaccatamente e, non stupendosi più di tanto del fatto che la Barros riappaia viva e vegeta (il suo nome è Lara), mira a solo a coricarsi con Dolingen. Come accade in scene che si direbbero molto partecipate dai due interpreti, giocate su dettagli di baci arditi e con l’esaltazione fotografica della luce delle candele fotografata coi flou di Massaccesi. L’altro fratello, intanto, constatata la scomparsa dell’amuleto di Pazuzu e messo in allarme, si getta sulle tracce di Franz, lanciando il suo cavallo ventre a terra. Ed è sempre l’amuleto magico, scordato da Franz sotto il cuscino del letto della locanda, che motiva Tanya a portarsi verso il castello per munire Damon della difesa. Dolingen porta al dito l’anello di cui Frank è alla ricerca e durante l’amplesso ci sono dei giochi stroboscopici-psichedelici sul colore rosso sangue del gioiello (che la Neri ricordava opera di Pomellato, forse vero o forse no), immagini che puntano a suggerire che Schiller sta sprofondando in un gorgo infido e che culminano infatti con una inquadratura della contessa trasformatasi in un vampiro, ovvero: con il close-up del muso di un vero pipistrello – soluzione straniante e geniale! Karl giunge al castello ed è accolto dalla Neri con la notizia che Franz se n’è andato, così, su due piedi, spregiando l’ospitalità, ma noi sappiamo che non è vero e che l’altro Damon è stato tramortito da Lara e che lo hanno ridotto in uno dei sepolcri della cripta.
La parte migliore arriva adesso: accettato l’invito di Dolingen a fermarsi per la notte, e bevuto del vino servito da Gengher Gatti, che parrebbe persino essere un doppio maschile di Lara, Karl ha una visione in cui lui, la Neri e la Barros cominciano a ridere istericamente e la situazione si va quindi trasformando in un rapporto lesbico tra le due donne, sui cui corpi nudi Karl si mette a fare oscillare l’amuleto di Pazuzu. Dolingen appare poi adagiata, sempre nuda, in un sepolcro, con la serva che le versa addosso sangue da una caraffa, cosicché la contessa si alza, aspersa del liquido e con pose “plastiche”, in una figurazione rimasta celebre e che potrebbe venir presa come massimo sigillo e feticcio dell’eros-gotico anni Settanta. Va da sé che queste scene saffiche hanno fatto il giro del mondo nella pubblicistica che reclamizzava il film, con scatti anche più spinti di quel che è finito sullo schermo. Nel caleidoscopio del sogno-delirio, si apprezzano i canini da vampira di Dolingen, che definirà poi se stessa come sposa del defunto Dracula. In una lunga peregrinazione tra corridoi, saloni e passaggi segreti del castello, Karl si mette alla ricerca del fratello: è come se a guidarlo fosse il rumore del battito del cuore di Franz, imprigionato dentro il sepolcro di pietra foderato di velluto rosso, e alla fine lo trova e lo libera. Prima però buttano in mezzo una lotta tra Damon e Ciro (Xiros) Papa, sortito da un altro sarcofago, vestito da cosacco e definito nei titoli di coda “il mostro vampiro”, come denunciano i canini aguzzi (uno dei quali visibilmente storto). Karl porta Franz in camera e nel percorso Dolingen li osserva, riflessi in un grande specchio, per farci capire quel che già si sa: l’archeologo non si riflette, il che significa che è un vampiro.
Quando i fratelli sono in scena insieme, se non è usato l’escamotage del fotogramma diviso in due, è Sergio Pislar a controfigurare l’altro Damon: nulla si sa di lui, se non che risulta accreditato in un decamerone e che lo si vede in faccia solo nel ben più tardo Virus di Bruno Mattei. Italiano o spagnolo, non è possibile dirlo. Damon dà la replica all’altro se stesso recitando la preoccupazione per la scomparsa dell’amuleto protettivo ma ricevendo dal fratello apprezzamenti sulla bellezza della figlia del locandiere: e bisogna per l’ennesima volta spezzare una lancia sull’efficacia dell’attore americano, che definisce benissimo l’indole dei due gemelli. L’amuleto intanto Tanya lo ha portato al castello: chiama Franz dal cortile ma si affaccia Karl. Il tempo di scendere ad aprirle, però, e Tanya è scomparsa ingoiata da un’ombra. Il talismano resta a terra, Karl lo recupera e tornato su, constata che anche Franz si è volatilizzato (lasciamo perere il non sequitur dell’amuleto oscillante sulle due vampire in amore: quello era un sogno…). Siamo al plenilunio, che troneggia nel cielo, ma mancano le vergini: Dolingen, bellissima, sugli spalti del castello, ostendendo all’astro il suo anello, le chiama, e una a una, cinque ragazze, escono dai loro letti e si avviano, in trance, alla rocca. La prima è Cristina Perrier, altrimenti nota dai film di Polselli: all’anagrafe Rosa Perra. Seguono Anna Maria Tornello, scaturita dai fotoromanzi spinti di Caballero e simili, quindi figurante, più o meno speciale, nuda in parecchie occasioni (Il sesso della strega) e assurta al ruolo di coprotagonista nel solo La cameriera, di Bianchi Montero nel 1975. I nomi di Elena Lonardo e di Patrizia Mibari, nulla ci dicono, né in cinema né altrove, e una delle cinque resta anonima. Costoro saranno gli olocausti nel corso di un rito in cui, dopo che Lara ha versato del sangue di gallina e dopo che degli individui vestiti di rosso e incappucciati di nero si sono piegati sulle ragazze, nude, ovviamente, strappando loro un gridolino, verranno stilettate dalla Barros.
Dolingen assiste alla cerimonia, assisa in trono, vestita in nero lungo e con una veletta. Tutto questo dovrebbe fungere da prodromo alla celebrazione del matrimonio di Rosalba Neri con Damon, quello da lei vampirizzato, cioè Franz, il quale in precedenza aveva lottato con il buon Karl e, apparentemente, aveva prevalso. Un duello che grazie ai giochi fotografici di Massaccesi, si era apprezzato come un gioco di ombre sul muro, con sapore espressionista persino, ma in realtà solo finalizzato a creare l’equivoco su chi avesse davvero vinto, il buono o il cattivo. La verità è che Karl, atterrato il fratello, ne ha indossato gli abiti e adesso siede accanto alla contessa. E qui tirano fuori il discrimine per cui Damon è messo alle strette: gli incappucciati introducono Tanya affinché lo sposo di Dolingen la sacrifichi, pure lei, con uno spadone (veramente inspiegabile che la Sbordone resti accollatissima e non venga spogliata). Karl, chiaramente, non dà l’affondo e comincia a lottare con i famigli della contessa, mena fendenti e li ammazza tutti nella bagarre, compresa Lara (abbrustolita con una torcia), gettandosi all’inseguimento di Dolingen che ha guadagnato gli spalti del castello. A sbarrargli la strada trova Papas, pure, del quale si sbarazza con un colpo di lancia. Il gran finale si consuma all’aperto, in cima al castello: di qua c’è Dolingen che spiana la mano armata dell’anello (e che nei controcampi è vista di nuovo come un grande pipistrello, grazie a una retroproiezione) e di là ci sono Tanya e Karl. E il potere del Pomellato rosso sangue scatena un vento che rischia di far cadere Damon di sotto, se in extremis costui non ricordasse di avere al collo l’amuleto di Pazuzu. Il vento turbinante viene recitato da Mark Damon facendo finta che ci sia, quando non c’è e il ridicolo, qui, è alle porte.
Ma il colpo di grazia inferto alla contessa è un’ascia scagliata che le mozza una mano: la vampira scompare in un lampo e quel che ne resta è l’arto reciso con l’anello dei Nibelunghi. Ma può finire bene un gotico italiano del 1972? Certo che no: di giorno, scavato che ha, Karl, una fossa per il fratello e piantatogli un paletto nel cuore, sale in carrozza con Tanya, la quale si avvicina per baciarlo (“Tuo fratello mi piaceva… ma tu mi piaci di più!”), ma svela dei canini e lo azzanna. Dalla mano di Damon cade l’anello fatato nel palmo dell’uomo misterioso, Gengher Gatti, che se lo infila e frusta i cavalli della carrozza verso ignota destinazione. Una versione circolante e farlocca del film finisce così, ma la vera coda è la mano di Franz che emerge dal terreno e afferra l’amuleto di Pazuzu che era stato lasciato lì, appeso a una croce di legno. Anche dell’inizio, va aggiunto, esistono due versioni: in quello originale, una ragazza fugge per un bosco inseguita in soggettiva da qualcuno, quindi lo schermo si riempie di una colata di sangue e partono i titoli. Nell’altra, l’inseguimento dell’ignota (mai ripresa in viso) dura di più e i titoli scorrono, prima, su sfondo nero. Per noi è tutt’altro che pessimo, Il plenilunio delle vergini, visivamente persino lussureggiante, grazie a tante cose, che vanno dalla presenza scenica della Neri, alla simpatia di Damon, alle malie fotografiche di diverse scene o agli escamotage tipo quello di far montare Dolingen su un carrello per dare l’impressione che non cammini ma lieviti spostandosi. Rientra perfettamente nel novero di quei nuovi gotici settanteschi che abbiamo definiti fiammeggianti, ai quali perdere tempo a fare le pulci per ribadire l’ovvio, cioè che prendano elementi tradizionali per contaminarli e riproporli, lascia il tempo che trova. Il 14 marzo del 1973, il film fu nullaostato vm 18, a fronte di tagli nella scena lesbica tra la Neri e la Barros e nel primo amoreggiamento tra Karl e Dolingen, con successiva ppp il 10 aprile del 1973, al Politeama di Torre Annunziata. La French version (Les vierges de la pleine lune), uscita il 17 aprile del 1974, non aggiunge nulla al montaggio italiano (con i tagli censura reintegrati, ovviamente).