“They are coming to get you, Barbara!”
Tutto quello che stava e che non stava dietro La notte dei morti viventi
“They are coming to get you, Barbara!” (Stanno venendo a prenderti…): è la battuta che apre La notte dei morti viventi. La pronuncia Johnny (Russell Streiner), sfottendo la sorella (Judith O’Dea), nel cimitero in cui stanno portando fiori sulla tomba del padre. E come evocato da quelle parole, tra le lapidi si profila un uomo, gli abiti sbrindellati e i capelli bianchi. È il primo morto vivente della fase moderna del cinema horror e l’attore che lo interpretava, William “Bill” Hinzman, era un tizio che non aveva alcuna attinenza col cinema, ma trovandosi a incrociare talvolta per gli uffici della produzione di George A. Romero, era stato fatto salire a bordo e gli era stata data la parte dello sconosciuto redivivo che aggredisce Johnny e gli spacca la testa contro il bordo di una tomba, sotto gli occhi della sorella. Questo Hinzman raccontava della propria perplessità, al momento di saltare addosso con furia a Russel Streiner. Romero gli aveva delineato le prerogative dei morti che camminano, limitandosi a dirgli che avrebbe dovuto deambulare lentamente, caracollando come un ubriaco: “Come faccio ad ammazzarlo, se mi nuovo in questa maniera, rallentata e scoordinata?”. Romero ci aveva riflettuto un attimo, sul quesito, ma poi aveva tagliato corto: “Fregatene! Aggrediscilo, uccidilo… e basta!”. Diventato nel tempo una celebrità agli occhi del fandom romeriano, Hinzman avrebbe poi detto di essersi ispirato per la recitazione del suo zombi al Boris Karloff di L’ombra che cammina, aggiungendo ampia dose di colore circa il fatto che la sera, quando tornò a casa, non voleva uscire dal ruolo, mettendo in fuga una vicina che lo aveva incrociato con addosso ancora la biacca sul viso e con quelle labbra nerastre che facevano venire in mente il ghigno del joker.
La notte dei morti viventi comincia con questo scherzo che si trasforma, ex abrupto, in violenza e orrore. Barbara fugge alla furia del mostro claudicante e si rifugia in una fattoria isolata, dove incontra prima Ben (Duane Jones) e poi un gruppo di persone nascoste in cantina. Ci sono Tom (Keith Wayne), la sua fidanzata Judy (Judith Ridley) e i coniugi Cooper, Harry (Karl Hardman) e Helen (Marilyn Eastman), che stanno vegliando la loro figlioletta Karen (Kyra Schon) che è stata, lei pure, aggredita e azzannata da un uomo in mezzo alla strada. Qualcosa sta accadendo fuori, nel mondo, forse a causa delle radiazioni emanate da una sonda spaziale appena rientrata nell’orbita terrestre da Venere. I morti tornano in vita. Ma non è la notizia peggiore. Il peggio è che questi orchi, dal movimento incerto e tentennante, sono alla ricerca di carne umana. Sono cannibali. Romero amava dire che il suo film, girato tra l’estate del 1967 e l’inizio del 1968, era nato come un gioco tra amici, una sorta di divertimento di un gruppo di ragazzi appassionati di cinema, con molte idee nella testa, spesso confuse. “Gli zombi che camminano lentamente e traballano malcerti sulle gambe, li avevamo pensati come un omaggio alla Mummia: era una maniera per renderli più spaventosi. Quell’andamento incerto si univa alla sorpresa che nel momento in cui riuscissero a raggiungerti, ti avrebbero piantato i denti nella carne”. Nessuno aveva mai immaginato di legare i morti viventi della tradizione, che fino al film di Romero era quella del voo-doo, all’antropofagia. Nessuno era mai giunto a questa reduplicazione dell’orrore. Romero e compagni avevano alle spalle, questo sì, Plan 9 from outer space di Ed Wood (1957), in cui i morti venivano resuscitati dagli alieni per usarli come arma contro i terrestri. Erano partiti da quello spunto, ma poi se n’erano andati per conto loro, in tutt’altra direzione. La rinuncia a fornire cause precise, l’avessero calcolato o sia stata una casualità nella costruzione in divenire, giorno per giorno, sul set, della storia, avvicina La notte dei morti viventi agli Uccelli di Hitchcock, dove la sollevazione della Natura contro l’Uomo può avere mille ragioni o nessuna. Si verifica e tanto basta a rendere il fenomeno molto più angosciante, poiché totalmente irrazionale.
IL FATTORE POLITICO
Il protagonista della Notte dei morti viventi, Ben, è un nero. E non solo è nero, ma diventa anche leader di un’improvvisata micro-comunità disorientata e confusa. Toccherà a lui, anche se mal volentieri, vestire i panni del capo tribù e scontrarsi con l’arroganza e la supponenza dell’uomo bianco (Harry), che non accetta il nuovo stato delle cose. Per Romero, La notte dei morti viventi era, anche e soprattutto, un film sull’incomunicabilità, ed è per questo che, alla fine, il gruppo fallisce nel tentativo di contrastare il “nemico”. L’aspetto razziale non c’entra o almeno non è intenzionale (Duane Jones non venne preso perché nero, ma perché era l’unico al casting che funzionava: e questo, ormai, è noto), sebbene sia impossibile non rileggere alcuni momenti in chiave “politica”. Quando Ben, ad esempio, spara a Harry, che in quel momento è disarmato, perché ha tentato nuovamente di ostacolare le sue strategie di sopravvivenza; o ancora nel finale, con Ben giustiziato (per errore) da un gruppo di vigilantes redneck, capeggiati da uno sceriffo bianco e arrogante. Ed è un caso, ovviamente, che proprio mentre Martin Luther King veniva assassinato, Romero tentasse di vendere la pellicola alla Columbia, ma è altresì vero che in quel preciso momento storico La notte offriva, inconsciamente, una chiave di lettura socio-politica come nessun altro film dell’orrore aveva mai fatto prima. Non sono invece casuali i riferimenti alla guerra del Vietnam, o almeno non lo sono nella misura in cui Romero aveva deciso di girare il film in bianco e nero, quando ormai il cinema horror era stato conquistato dal colore. Il bianco e nero serviva a ricreare la veridicità di quelle immagini di guerra che gli americani erano abituati a vedere in tv. Romero, che veniva dalla pubblicità e dai documentari, tentò di trasportare quelle tecniche nel suo film, facendo di necessità virtù, per far fronte alla scarsità del budget (poco meno di 100.000 dollari, racimolati tra amici e parenti coinvolti in più ruoli nelle riprese). Il risultato è chiaramente percepibile nei finti telegiornali, che gli assediati guardano sul piccolo schermo, ma anche nei pasti cannibalici, mostrati con la stessa crudezza e lo stesso distacco di un documentario del National Geographic, e nel finale, quando i titoli di coda scorrono su fotografie sgranate che illustrano la mattanza del corpo senza vita di Ben, prima di essere gettato alle fiamme.
Il coraggio di mostrare quello che nessuno aveva avuto il coraggio di mostrare, o, per lo meno, di mostrarlo con classe e rigore, era la prima qualità che balzava all’occhio nella Notte dei morti viventi. Si può dire che è come se Orson Welles (cui Romero guardava nell’illuminazione del bianco e nero) si fosse incontrato con la filosofia sanguinaria di Herschell Gordon Lewis. Nella scena in cui la bambina uccide la madre e divora il padre, oltre all’aggressione sensoriale di un’immagine efferata che intendeva colpire lo spettatore allo stomaco, si lesse l’apice di una contestazione che proprio allora contrapponeva una nuova generazione ribelle a quella conservatrice, responsabile, tra l’altro, della guerra nel Vietnam. “Era il 1968 e tutti avevano un messaggio da dare. E forse, ripensandoci con il senno di poi, ci siamo cascati anche noi”, avrebbe detto un giorno Romero. Avallando, da un lato, le molte esegesi stratificate che sono state date del film, come un portato inevitabile dei tempi, ma dall’altro ribadendo che La notte dei morti viventi balzò fuori, per così dire, dalle loro menti, armato fatalmente, ma anche casualmente, di tali prerogative che incrociavano la Storia e gli eventi. Dunque, un film di rottura “inconsapevole”, che dimostrò, non da ultimo, di poter cavalcare il genere per veicolare messaggi importanti e di poterlo fare a budget contenuto, e lontano (anche geograficamente) dalle politiche hollywoodiane. Quel che è certo è che dopo quella “notte”, niente sarebbe stato più lo stesso.
PERCHÉ NON GIRIAMO UN FILM?
Al corso di pittura, anziché ritrarre la modella nuda che posava di fronte a lui, il giovane George A. Romero, disegnava il manifesto di Ben Hur. Il cinema era la sua passione, tanto da mentire ai genitori il giorno del diploma, disertando il ballo di fine anno per sgattaiolare da solo in una sala vestito con lo smoking. Da giovanissimo, aveva lavorato su un set di Alfred Hitchcock, Intrigo internazionale, come volontario, e aveva osservato attentamente il maestro, ma non era rimasto particolarmente impressionato. Troppa tecnica e poca spontaneità. A Pittsburgh, dove viveva, Romero era finito a lavorare in televisione e insieme a due amici, Rudy Ricci e John Russo, aveva fondato una società di produzione, la The Latent Image. Si trattava di realizzare piccole cose, qualche spot e diversi documentari, abbastanza per crearsi una certa fama e sbarcare il lunario, finché a qualcuno non venne un’idea. “Perché non giriamo un film per il circuito dei drive in?”. A proporlo era stato John Russo, che aveva in mente anche una storia, una horror-comedy, su un gruppo di teenager alieni cannibali che arriva sulla Terra. “Qualunque film andremo a fare”, disse Russo, “dovrebbe iniziare in un cimitero. I cimiteri sono luoghi che fanno paura”. A Romero l’idea degli alieni non piaceva e, di ritorno da qualche giorno di vacanza, si presentò agli amici con alcune paginette di una storia ispirata al romanzo I vampiri (I’m Legend) di Richard Matheson, su un gruppo di uomini barricati in una casa assediata dai morti viventi. “L’idea di George, ci piacque subito”, ricordava Russo “ma questi morti viventi non facevano altro che attaccare i superstiti. Ci sembrava poco ai fini dell’azione e allora pensammo di usare l’idea dei miei alieni che si cibavano di carne umana. Così rimisi a posto ciò che George aveva scritto e completai il resto della sceneggiatura».
Nell’estate del 1967 la The Latent Image si trasformò nella Image Ten, per produrre un film dal titolo provvisorio Night of Anubis, successivamente mutato in Night of the Flesh Eaters e infine in Night of the Living Dead. Budget stimato 60.000 dollari, ripartiti tra 10 amici che avevano investito a testa 6.000 dollari. Quasi tutti sarebbero poi stati impiegati sul set in qualità di membri del cast tecnico e artistico. Russel Streiner avrebbe rivestito il ruolo di produttore e quello di attore nei panni di Johnny, il fratello di Barbara; Karl Hardman, che nel film interpreta l’indisponente Harry Cooper, figura anche come produttore e fotografo di scena, mentre Romero stesso non si sarebbe occupato solo della regia, ma anche della fotografia e di parte del montaggio. Le riprese iniziarono a fine giugno. La prima scena fu girata nel cimitero di Evans City, Pennsylvania, che era, però, proprietà privata e ovviamente la troupe non aveva nessun permesso per effettuare le riprese. Durante la lavorazione era necessario quindi prendere qualche precauzione perché, come confermava Russo, “avevamo il terrore che riprendendo i nomi sulle lapidi potessimo finire in qualche casino legale!”. Le riprese al cimitero durarono due giorni e per la scena Russ Streiner chiese in prestito la macchina a sua madre, convincendola anche a lasciare che il morto vivente le fracassasse il finestrino con un sasso. La maggior parte delle riprese ebbero luogo in una fattoria nei dintorni di Evans City, che sarebbe stata abbattuta da li a poco per ristrutturarla e che la produzione riuscì a noleggiare per la modica cifra di 300 dollari al mese. La casa però non era munita di scantinato e per le scene in cantina, dove si svolge tutta l’azione della bambina zombi, venne ricavato un apposito set nei seminterrati della The Latent Image.