Traumacore. Horror, weird e memoria traumatica
Perché fare horror? Lo sceneggiatore di A Classic Horror Story e The Nest scrive per noi
Una domanda che mi è stata posta costantemente durante la mia carriera di autore è: perché l’orrore? Perché scegliere una rappresentazione espressionista della realtà che accentua il nero dell’oscurità e il rosso del sangue, la fragilità e l’oscenità del corpo, che insiste sul lato oscuro di noi stessi e del mondo? Perché non scrivere una commedia impegnata, vitale, un antidoto al fiume costante di negatività e vetriolo in cui le nostre vite rischiano di annegare, una bella storia piena di speranza che faccia ridere, riflettere e trovare la forza di affrontare il domani? La domanda mi ha messo tanto più in difficoltà perché sono io il primo a pormela. Non ho mai pensato che esporre il pubblico al Male nelle sue forme più nude ed esplicite sia un atto gratuito o nocivo, ma se pensiamo a ciò che ci accade quando guardiamo un film o leggiamo un racconto dei generi oscuri, l’evidenza suggerisce il contrario. Quando leggiamo o guardiamo una storia weird o dell’orrore, la nostra realtà viene espansa e in essa vengono incluse possibilità e presenze che di consueto non occupano il nostro spazio mentale. Il mondo che prima, pur nella sua imperfezione, ci sembrava familiare, adesso ci appare ancora più alieno e ostile. Continuiamo ad avere paura di Pennywise anche dopo che i Perdenti l’hanno sconfitto, così come Pazuzu, il demone de L’Esorcista, continua a terrorizzarci anche dopo il sacrificio di Padre Karras; alla fine di film come The Blair Witch Project o Skinamarink ci manca il coraggio di spegnere la luce. L’interpretazione che l’horror e il weird servano a esorcizzare le nostre paure è, nel migliore dei casi, consolatoria. Più che esorcizzare, evocano cose che abbiamo buone ragioni di tenere a distanza.
Quindi perché, come me, centinaia di altri autori, nel cinema come nella letteratura, nelle arti plastiche e nella musica, scelgono di raccontare l’oscurità e non la luce, il vuoto e non la speranza, la rovina e non il futuro? Per molti anni, a portare avanti il mio lavoro è stata la certezza, forte come una fede, che i generi horror e weird, nelle loro iterazioni più potenti e destabilizzanti, sono una conversazione necessaria; ma le ragioni profonde per cui lo sono mi sfuggivano. Poi, qualche mese prima della pandemia, durante la prima revisione del mio romanzo La Stanza Bianca, lessi per documentazione Le Livre Noir des Violences Sexuelles di Muriel Salmona e trovai qualcosa di simile non dico a una risposta ma a una chiave di lettura. Il saggio tratta in modo esaustivo le conseguenze a lungo termine dell’abuso morale e sessuale e dettaglia ciò che accade al nostro cervello quando siamo esposti a un’esperienza traumatica. Il nostro sistema nervoso, si apprende, è ben attrezzato per affrontare le insidie del mondo in cui viviamo.
Quando ci troviamo in una situazione di pericolo l’amigdala, una regione che elabora il nostro vissuto presente, dà l’allarme inducendo il rilascio di quantità massicce di adrenalina e cortisolo, potenziando i nostri sensi e la nostra agilità muscolare, preparando il corpo a reagire in modo immediato alla minaccia. Così facendo stimola l’ippocampo, che funzionando come un archivio e un motore di ricerca raduna le informazioni pertinenti alla situazione e le invia alla corteccia cerebrale, la quale prende le decisioni necessarie a salvarci la pelle: raggiungere una via di fuga, eseguire una mossa di autodifesa, correre al più vicino estintore. Trovata una soluzione, la corteccia segnala all’amigdala che il pericolo è scampato. L’amigdala riduce la produzione di ormoni e invia all’ippocampo la traccia mnemonica dell’esperienza perché venga archiviata e resa disponibile in vista di situazioni analoghe in futuro. Grazie a questo sistema possiamo schivare l’auto che ci sta investendo, possiamo spegnere un fuoco, possiamo scappare da un’aggressione prima che sia troppo tardi, metterci al sicuro da una sommossa di strada, cercare riparo nel corso di un attentato e, nel caso in cui il pericolo si ripresenti, consultare l’esperienza precedente per capire nel minor tempo possibile come affrontarlo. Il nostro sistema nervoso è quindi calibrato per sopportare situazioni di minaccia grave e per prepararci ad affrontarne di nuove. Dopo l’esperienza saremo scossi ed emotivamente fragili per il tempo necessario all’ipotalamo per includere il nuovo ricordo nella memoria preesistente, ma con il tempo ritroveremo un equilibrio mentale funzionale.
Da questo circuito risulta evidente come una parte importante della nostra salute mentale dipenda dalla nostra capacità di integrare il nostro vissuto in una narrazione coerente. Viviamo in una puntata di Friends che da un momento all’altro può trasformarsi in un servizio di cronaca nera al telegiornale, nel quale, se va bene, saremo solo comparse o ruoli secondari; e quando scampiamo a qualcosa di brutto possiamo convincerci di aver cambiato canale per sbaglio, e che la normalità e le sue risate pre-registrate avranno infine il sopravvento su quelli che percepiamo come eventi eccezionali; oppure, possiamo imparare a goderci un cappuccino al Central Perk con una visione del mondo più matura e una consapevolezza diversa. Tuttavia, quando subiamo un atto di violenza gratuita, fisica o morale, ossia quel genere di brutalità che il nostro sistema nervoso non è addestrato a codificare – gaslighting, manipolazione emotiva, mobbing, molestia, stupro, tortura, shock economici o tecnologici, l’esposizione costante alla morte violenta nelle zone di guerra – il sistema va in cortocircuito.
Il mondo, o un’altra persona, ci impone una narrazione di sopraffazione e annientamento che non coincide con il senso comune e con l’istinto, orientati all’equilibrio e alla sopravvivenza. Quando siamo esposti a questa violenza insensata e abnorme, l’amigdala si attiva e produce ormoni, ma l’ippocampo è incapace di trovare i dati relativi a un atto così inaspettato e aggressivo; privata dell’apporto di informazioni, la corteccia non sa cosa fare e non riesce a prendere decisioni. In assenza di un segnale di scampato pericolo, l’amigdala continua a produrre ormoni che, in dosi elevate, diventano tossici per l’organismo aumentando il rischio di collasso cardiaco e incidenti vascolari maggiori. Per interrompere la sovrapproduzione ormonale prima che ci costi la vita, la corteccia taglia ogni connessione tra ippocampo e amigdala. Questa disconnessione è l’evento neurologico all’origine della memoria traumatica, che modifica permanentemente l’equilibrio psichico di chi sopravvive.
Con l’amigdala disconnessa dall’ippocampo, la memoria contenuta in essa non può essere integrata al resto dei nostri ricordi e rimane quindi intrappolata nel circuito cerebrale che elabora il qui e ora. Dopo il trauma, per anni, la memoria dell’atto violento rimane latente sotto la nostra esperienza del presente, pronta a emergere al minimo stimolo; le scene, viste più volte al cinema, di un reduce di guerra che dal salotto di casa si ritrova di nuovo in mezzo a un combattimento nella giungla o sotto le cannonate di un campo di battaglia non sono esagerazioni, ma una rappresentazione efficace di ciò che deve sopportare chi sopravvive a un trauma. Inoltre, la narrazione che informa la nostra memoria si ritrova con una scena che non può integrare, e questo buco di trama inizia a sgretolare l’intera struttura narrativa della nostra storia personale.
La sofferenza psichica che ne consegue ha sintomi specifici. Uno di questi è l’ipervigilanza, ossia una sensibilità abnorme verso l’esterno che può portarci a percepire pericoli che non sono reali e, nei casi più estremi, ad attacchi di panico e paranoia. In condizioni di ipervigilanza, persino la nostra casa può risultarci di colpo ostile: un rumore ci dà la certezza della presenza di un intruso, il buio dietro le porte si affolla di presenze. Altri sintomi sono la depersonalizzazione e la derealizzazione. La depersonalizzazione è la sensazione di essere alienati da sé stessi, di vivere la propria vita guardandosi dall’esterno. La derealizzazione è la medesima dissociazione proiettata verso l’esterno, così che a sembrarci altri da noi, così distanti da poter essere irreali, sono il mondo e gli altri. Può inoltre verificarsi una vera e propria contaminazione psichica tra aggressore e vittima. Chi perpetra un abuso morale o sessuale spesso ne ha subiti a sua volta e, al momento dell’atto violento, intrappola la vittima nella propria narrazione; in un certo senso sovrascrive una parte di se stesso alla sua preda, la contamina con la propria modalità di funzionamento. Chi sopravvive a un abuso, nella profonda confusione in cui si trova dopo la violenza, nell’impossibilità di concepirsi al di fuori dell’episodio violento che ha definito la sua vita, può sperimentare l’impulso di ripetere la stessa violenza che gli o le è stata inflitta.
Più mi addentravo nel quadro clinico di chi sopravvive a un abuso, più una serie di parallelismi mi apparivano evidenti. Pensavo alla mutazione caratteriale di Regan ne L’Esorcista che da adolescente ferita dall’incuranza del padre si trasforma in una creatura mostruosa, oscena e violenta. Pensavo al decadimento psichico e morale dei protagonisti di Amityville Horror e del romanzo Shining; e a La Casa di Sam Raimi, dove degli spensierati ventenni mutano in sadici non-morti a causa di forze maligne che hanno bisogno di un trauma fisico o di una ferita per introdursi nei loro corpi. O ai più comuni zombie e licantropi, il cui morso trasmette la loro condizione a chi sopravvive all’attacco. Ne La Cosa di John Carpenter, una sostanza priva di identità propria divora i membri di una spedizione scientifica in Antartide e ne prende le sembianze; per tutta la pellicola lo spettatore si chiede se i personaggi sullo schermo siano umani o mostri, si chiede chi o cosa stia guardando. Film come Mulholland Drive, Inland Empire e Rosemary’s Baby suggeriscono continuamente che la realtà sia un inganno, o che non esista una realtà propriamente detta. Lo spettatore sperimenta uno stato dissociativo che rende impossibile considerare come reale ciò che vede.
Lo stesso effetto lo producono i found footage come The Blair Witch Project e i mockumentary come Lake Mungo e Noroi – The Curse. Queste pellicole adottano un linguaggio che lo spettatore considera diegetico alla realtà di tutti i giorni, ossia quello delle riprese video amatoriali e del reportage giornalistico, e per contrasto vi inseriscono elementi paranormali e oscuri che esulano dalla nostra esperienza empirica, provocando una dissonanza cognitiva che finisce per farci dubitare non tanto della verosimiglianza del film quanto della nostra stessa realtà. Durante la visione, la quasi-realtà del film e la nostra realtà si fondono temporaneamente in una regione indeterminata e fluida, piena di crepe, angoli bui e possibilità devianti. Il corrispondente del found footage in letteratura è la narrazione in prima persona, non a caso un tratto caratteristico delle opere di maestri come Edgar Alla Poe, Howard Phillips Lovecraft, Algernon Blackwood e Thomas Ligotti, che può presentarsi come resoconto a posteriore dei fatti da parte di un testimone più o meno affidabile, o come la ricostruzione degli eventi in stile giornalistico tramite comparazione di materiali disparati (Il Wendigo, Il Richiamo di Cthulhu) o come una sovrapposizione di più livelli di lettura e interpretazione (come in Casa di Foglie di Mark Z. Danielewski). Queste tecniche dilatano l’effetto del racconto oltre l’esperienza vicaria offerta dalla fiction, saldandolo alla percezione che il lettore ha della realtà empirica.
La disconnessione avviene anche a livello spazio-temporale. Eventi passati rivivono nel presente, come se nel presente fossero di casa, o addirittura più forti del presente (le apparizioni in Shining); il presente sembra prigioniero di un loop (Haunter, Resolution, The Endless, Coherence) o incapace di smarcarsi dal passato (Allucinazione Perversa, Il Sesto Senso); eventi non ancora avvenuti si palesano come avatar di un futuro nefasto (Lake Mungo, Triangle, Il Signore del Male). La quantità di parallelismi, che sono troppi per essere riportati per intero, mi ha convinto che esista una risonanza forte tra il linguaggio del cinema e della letteratura di genere weird e horror (ambientazioni, personaggi, trame, modalità di racconto, stile narrativo e visivo, influenza psicologica sullo spettatore) e il disturbo da stress post- traumatico.
Possiamo interpretare queste congruenze in vari modi. Come Stephen King ha fatto in Danse Macabre, possiamo teorizzare che i generi oscuri usino punti di pressione fobica per metterci paura, e l’autore che voglia specularvi cerchi ispirazione in tutto ciò che ci fa male; oppure possiamo azzardarci a ipotizzare che i generi oscuri siano un’espressione simbolica e poetica di un trauma universale, il tentativo di verbalizzare e comunicare qualcosa di indicibile che, in un momento sospeso della nostra storia personale o della Storia tout court, ci ha feriti e menomati in modo permanente. Chi sopravvive a un trauma conseguente a un abuso fisico, sessuale o morale scopre che è impossibile raccontarlo. La memoria dell’evento traumatico, imprigionata nell’amigdala, non è recuperabile con i meccanismi cerebrali canonici, con la conseguenza che chi sopravvive a volte non ricorda ciò che è accaduto, specie se la violenza non ha lasciato segni fisici evidenti o non ha precorso nel breve termine patologie secondarie. I sintomi di quello che la psichiatria moderna chiama “Disturbo da Stress Post Traumatico” sono obliqui e del tutto personali: chi li esperisce può, per molto tempo, non accorgersi che qualcosa non va, e assistere impotente alla propria personalità che degrada, alla propria lenta alienazione dal mondo esterno, alla motivazione che scema di colpo, al fallimento dei propri progetti e relazioni senza capire cosa stia accadendo.
Ma non c’è solo questo. Anche quando viene verbalizzata, l’esperienza di chi sopravvive alla violenza gratuita può risultare, a chi non ha mai esperito gli stessi sintomi, irreale, illogica e improbabile come una menzogna elaborata, oppure può venire considerata inaccettabile per il suo orrore, per le responsabilità e l’impotenza a cui ci mette di fronte. Quando sopravviviamo a un abuso troviamo nelle persone attorno a noi una resistenza, che può essere inconsapevole o deliberata, a riconoscere e condividere il nostro dolore. Ciascuno difende il proprio equilibrio mentale come può e la sofferenza del sopravvissuto viene inquadrata in una visione del mondo che tende a normalizzarla, ad attenuare lo stress psichico che provoca in chi si confronta con essa. Probabilmente è per questo che quando proviamo a raccontare episodi come quelli sopra citati ci sentiamo rispondere frasi fatte, accuse spietate o incoraggiamenti inutili: “sei fortunato/a a essere ancora in vita”, “è andata così, accettalo e vai avanti”, “te la sei cercata”, “se non reagisci e continui a stare male è perché non vuoi guarire”.
Ecco, questo l’horror e il weird non lo fanno. Non razionalizzano, non normalizzano. Chiamano orribile ciò che è orribile. Chiamano malattia, depressione, crudeltà, egoismo, abuso, disperazione e morte con il loro nome. Guardano il Male dritto negli occhi e lo emancipano da qualsiasi narrazione mitica, virile o consolatoria, ritraendolo in tutta la sua inaccettabilità, senza mentire sulla nostra vulnerabilità a esso, sulla solitudine nella quale dovremo affrontarlo, sulla forza sovrumana che ci è richiesta per batterlo – quando è possibile farlo – e sui segni permanenti che lascia su di noi. E’ per questo che horror e weird sono necessari, e qui sta la loro umanità, nascosta dietro la violenza del loro gesto espressivo: capiscono fino in fondo la nostra parte più reietta, ci aiutano a chiamare per nome i nostri demoni. I più ottimisti potrebbero trovare questa visione deleteria, perché scoraggiante: il Male, secondo la saggezza comune, vince soprattutto grazie alla sua reputazione di onnipotenza. Ma chi ha visto il Male sa che l’ottimismo serve a poco. Quella che serve per affrontarlo, superarlo o conviverci è una forza d’animo che dipende molto poco da una posizione intellettuale o da una visione positiva del mondo (che ci convince di aver estirpato il Male, quando spesso gli ha solo permesso di ripresentarsi in altre forme più sottili, e che ci rende ciechi alla sua presenza) e che al contrario dipende moltissimo dalla nostra capacità di guardare il problema negli occhi, accettarlo, integrarlo alla nostra narrazione e, quando è possibile, combatterlo.
Si potrebbe inoltre obiettare che non tutti gli spettatori e i lettori siano dei sopravvissuti a un trauma, ma la mia sensazione è che il pubblico delle opere weird e horror, casuale o appassionato che sia, a livello viscerale capisca al volo e benissimo di cosa parlino i generi oscuri, quale aspetto del mondo mettano in luce. Può essere il riverbero di orrori storici, che ancora infestano il nostro inconscio e il nostro immaginario; può essere l’effetto a lungo termine di un’educazione sbagliata. Ma il problema potrebbe essere molto più prossimo e urgente. Viviamo in una società che usa l’abuso morale come mezzo di controllo, ripetendoci simultaneamente che dobbiamo fare di più e che quello che facciamo non è mai abbastanza; che tollera e incoraggia il narcisismo, la manipolazione, le condotte aggressive e cannibaliche; che oggettifica e monetizza il nostro aspetto esteriore, i nostri corpi, le nostre competenze; e, forse la cosa peggiore, che ci ha resi incapaci di pensare a un mondo diverso.
Nel suo saggio Realismo Capitalista Mark Fisher metteva in luce come da più di un secolo siamo ostaggio di un’ideologia che si è posta come unica alternativa, arrivando a distorcere la realtà pur di convincerci di questo, come un partner abusante convince la propria vittima che nessun altro la amerà, che la sua vita sarà invivibile al di fuori della relazione tossica. La traduzione simbolica più immediata del presente è dunque un mondo pervaso di fatalismo e popolato di zombi, di anime rubate o vendute, di corpi usurpati, di vampiri e licantropi, di idee virali che ci possiedono come spiriti maligni. Ma i generi oscuri non si riducono a una metafora del mondo esterno: tutto ciò che c’è di maligno al di fuori di noi non è che emanazione di ciò che è dentro di noi; gli impulsi alla base dei peggiori vizi e delle compulsioni più distruttive della nostra epoca sono possibilità, più o meno realizzate, che tutti noi conteniamo.
Per concludere, quindi, perché leggere, scrivere, guardare l’orrore? Perché quando funzionano a dovere, horror e weird ci aprono gli occhi e ci ricordano cosa ci fa male e cosa dovrebbe farci paura del mondo e di noi stessi. Molto spesso, sono verità alle quali non pensiamo abbastanza spesso, delle quali ci siamo dimenticati, alle quali ci siamo assuefatti. Più che alla disperazione, portano sono il presupposto di una forma più lucida e sana di speranza: non la speranza che tutto finisca bene, ma la speranza in un mondo che, per difendere ciò che resta di buono, deve prima di tutto smascherare, identificare e dare un nome al Male fuori e dentro se stesso.
(Strasburgo, dicembre 2023 – febbraio 2024)