Pusher – L’inizio
1996
Pusher – L’inizio è un film del 1996, diretto da Nicolas Winding Refn
Vivere e morire a Copenaghen. Il folle esordio di Nicolas Winding Refn torna in questi giorni alla Mostra del Cinema di Venezia in versione restaurata e con un’aura ormai impossibile da non avvertire. Non solo perché il buon NWR è diventato ciò che sappiamo proprio a partire da questo film e dalla trilogia cult che ne è nata, ma anche perché Pusher è, per diversi aspetti, un instant movie. Un prodotto miracoloso, sia per il modo in cui è stato realizzato sia per tutte le convergenze che si sono susseguite durante le riprese. Ma soprattutto un’opera al posto giusto nel momento giusto, sulla scia del primo Tarantino e nel contesto di un cinema (quello danese) artisticamente sul punto di sbocciare. Per la precisione, il Dogma 95 è proprio l’unica coordinata che non si interseca con questi fatti, sebbene le scelte stilistiche potrebbero far credere il contrario. Fatto sta che un Refn allora neanche venticinquenne e con nessuna esperienza registica alle spalle rifiutò, contro il parere di chiunque, di trasformare il suo soggetto in un cortometraggio e di girarne invece un lungo. Il resto è storia.
Così come è storia la parabola criminale di Frank, ossia quel Kim Bodnia che di fatto, con la sua interpretazione, salvò il film. L’opera prima di NWR si regge interamente sulla credibilità e sul realismo di un soggetto semplice e dal facile effetto déjà-vu. Le ispirazioni sono evidenti quanto molteplici, dal Friedkin di The French Connection allo Scorsese di Mean Streets, ma Refn ne mette in scena un perfetto eccesso. Le riprese con la macchina a mano, pronta a schizzare e mai doma, sporcano lo schermo, lo rendono invisibilmente vero e nascondono il superfluo. Che è di fatto qualsiasi cosa che rispecchi la nuda e cruda verità di Frank, del suo amico Tonny, della sua ragazza Vic e dei gangsters serbi Milo e Radovan. Anche i dialoghi, per quanto anche qui si possa provare a cercare la trasognata e fuori dagli schemi verve tarantiniana, sono duri, secchi, impregnati dello stesso distacco che piano piano si fa strada nell’odissea senza ritorno del protagonista. Nessun abbellimento e nessuna edulcorazione d’immagine: solo la purezza di un dramma che sembra andare in scena proprio in quel momento, davanti agli occhi di chi riprende. Fatto marginale ma fino ad un certo punto, il film rappresenta anche l’esordio di uno dei più importanti volti del cinema contemporaneo: quel Mads Mikkelsen che poi proseguirà la saga nell’ottimo capitolo secondo.
Ma perché Pusher è riuscito in ciò che tanti altri indipendenti sognerebbero solo di poter fare? Qual è il segreto che si cela dietro un film che, per stile, ritmo e immagini potrebbe stare in mezzo a tanti altri? Fatte salve le componenti esterne di cui sopra, la verità è che, in questo diamante grezzo, si è instillata anche la potenza dell’immagine cinematografica. Il talento di Refn emerse in tutta la sua potenza già allora, catturando immagini di grande impatto in mezzo ad un autentico turbinio narrativo. Basti pensare alla fuga di Frank dalla polizia o allo stesso finale, due momenti in cui ci accorgiamo che la macchina non si limita a riprendere ma cerca anche di comunicare e raccontare. In mezzo al brutale realismo, una luce capace di rimetterci al nostro posto di spettatori: l’immagine di Kim Bodnia, ferito e ormai solo, mentre il suo destino è pronto ad accoglierlo e lui sembra ormai convinto ad accettarlo. Questo è più di quanto si possa sperare di trovare oggigiorno, anche nel cinema mainstream.