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Maria

2024
REGIA:
Pablo Larraín
CAST:
Angelina Jolie (Maria Callas)
Valeria Golino (Iakinthi Callas)
Haluk Bilginer (Aristotele Onassis)

Il nostro giudizio

Maria è un film del 2024 diretto da Pablo Larraín.

‘Non credo che Solzenicyn abbia scritto “Una giornata di Ivan Denisovic” in un centro yoga’. Amy Sherman Palladino -o chi per lei- ha sintetizzato perfettamente il rapporto direttamente proporzionale tra l’artista e la sua sofferenza. D’altronde, lo sappiamo bene, l’Italia del Sì, la positività d’accatto, l’ottimismo più deteriore hanno portato a cose abominevoli come il Jova Beach Party, cantanti indie coi nomi di merendine/gelati e il reggaeton; come sappiamo bene che Orfeo si girò di proposito verso la sua amata per renderla una fonte infinita d’ispirazione, per renderla quel dolore – totalmente egoriferito – che non è altro che la vena da cui attinge ogni artista o pseudo tale. La Callas usa Maria, il suo dolore, una madre abusante che ha costretto lei e la sorella Jackie (Valeria Golino) a darsi ai nazisti, e non solo, durante l’occupazione delle forze dell’Asse in Grecia. ‘Chiudi la porta’ così insiste la sorella in un ultimo e intimo incontro, intimandola a non pensare al passato ma ad andare avanti coi paraocchi, eppure quella porta sull’abisso è ciò che ha permesso a Maria di riscattarsi da una vita di violenza, anafettività ed entropia. Vorrei parlare bene di Maria, ennesimo biopic (presentato in concorso a Venezia 81) di Pablo Larrain su uno dei volti femminili di questo presente-assente Novecento che non vuole morire -almeno al cinema-, ma è impossibile empatizzare con la sfortunata donna (una Angelina Jolie che interpreta Malefica che mima Maria Callas) se non in alcuni momenti ispirati della fotografia di Ed Lachman, o le ricostruzioni quasi documentaristiche dei momenti più felici della vita della Divina, momenti che non prevedono amici, colleghi e incontri eccelsi, ma solo quel pirata di Aristotele Onassis (Haluk Bilinger), marito scudo di Jackie Bouvier e odiato nemico di Grace Kelly.

Larrain, dopo Jackie e Spencer, parte da un dettaglio molto piccolo e semplice per parlarci del rapporto tra artista e sofferenza: l’ultima settimana di vita di Maria Callas (settembre del 1977), una donna che ha conosciuto la miseria e l’opulenza, la gloria e il degrado, il rifiuto e l’amore che non ha mai percepito in quanto tale (come ogni persona depressa che si rispetti). Vive a Parigi, in una solitudine raccolta, in un grande appartamento che sa di claustrofobia come quello di Burt Lancaster in Gruppo di famiglia in un interno: a farle da badanti, cuochi, genitori, amici, fratelli e figli ci sono i domestici Bruna (Alba Rohrwacher sembra una via di mezzo tra Tremotino e Panzironi) e Ferruccio (un Pierfrancesco Favino che ricalca i domestici cingalesi di The Lady). Pare l’istantanea di una famiglia, dall’esterno disfunzionale, ma nelle private stanze dell’amica di Pier Paolo Pasolini, un gruppo di persone che si vogliono bene e che curano l’artista da un passato doloroso, quella solitudine piena di fantasmi di cui parlava Camus nel suo Caligola; ovviamente questi fantasmi, presenze che sono una consolazione e al contempo un calvario per l’artista, vengono alimentati dai digiuni prolungati o dall’uso smodato di barbiturici (mandrax). Così il regista decide di raccontare la Callas attraverso tre piani (con buona pace di Nolan): la realtà, i ricordi e una intervista impossibile dove le droghe assumono la corporeità di un giornalista fastidioso (Kodi Smit-McPhee). Maria ha perso il suo ‘brutto’ amato, la Callas la sua voce, così la sintesi tra queste due donne non ha più niente per cui vivere, se non resuscitare quella estensione drammatica e devastante, o per dirla con l’Amadeus di Milos Forman: ‘quel fuoco inestinguibile che ti divora eternamente’.

Nei momenti migliori, Maria pare una continuazione blanda del discorso sull’arte iniziato col magnifico Neruda, a suo modo una toccante versione de L’usignolo e la rosa di Oscar Wilde, l’usignolo che non può creare arte senza diventare, a suo modo, un agnello di Dio; nei momenti peggiori, invece, c’è una stucchevolezza esacerbante, scene scritte a ‘mo di gag (il pianoforte perennemente spostato dai domestici) senza il giusto tempo comico, tre atti e un prologo composti da un certo manierismo che viene deprezzato da dialoghi che dovrebbero colpire – in qualche modo – il pubblico.
Se dalla sofferenza nascessero solo capolavori non ci spiegheremmo gli ultimi album di Nick Cave (Wild God esce domani) colpito dall’indicibile tragedia di due figli morti. Eppure, per tutti gli altri, da Nick Drake a Elvis, da Walter Chiari alla Callas, vale la regola aurea: traumi = opere d’arte. Lo sappiamo, anche se lo neghiamo a noi stessi ogni giorno tramite selfie, post e ogni manifestazione possibile che i social ci offrono per sottolineare la nostra esistenza al prossimo, ma il nostro destino è quello di essere dimenticati da chi abbiamo amato. Eppure, i più fortunati tra di noi sono destinati a essere ricordati da una grande folla senza nome, e ad appartenere al pubblico, e a lui soltanto. E così sia.