Il Festival di Venezia e il cinema di genere: un pregiudizio
Horror, thriller, noir sono sempre fuori concorso
Una nota a caldo in chiusura del Festival di Venezia, che si archivia col giusto Leone d’oro a The Room Next Door di Pedro Almodóvar. Tre anni fa, con la clamorosa vittoria a Cannes di Titane di Julia Ducournau, il cinema di genere sembrava tornato con forza sul palco principale, quello in cui si ritirano premi. Ovviamente non è stato così. Anche l’ultima Venezia, come molti festival internazionali, ha confermato la tendenza a relegare il cinema di genere nel ghetto delle sezioni collaterali. Mi spiego: il più grande thriller che si è visto in concorso, The Order di Justin Kurzel, in tutta evidenza si trovava lì perché frequenta il tema del neonazismo e per il rilancio eclatante della figura di Jude Law, finora in luna calante, che qui fa il commissario rabbioso, incazzato, pistola alla mano in stile Maurizio Merli. E non ci sono psicologismi, perché il personaggio cita la sua famiglia ma questa non si vede mai… Insomma un grande esercizio di genere, un thriller-noir potente che infatti viene totalmente ignorato in sede di premiazione – nel celebre toto-Leone della vigilia nessun addetto ai lavori lo indica come possibile premiato, neanche per un contentino collaterale. E così va.
Ma The Order è stato il caso più fortunato, che almeno si è giocato le sue carte nella competizione. Altri presunti thriller, come il bel film di Singapore Stranger Eyes, usano il meccanismo per parlare di tutt’altro, qui il voyeurismo che avvolge la società e la dittatura dell’essere sempre guardati. Per il resto, il genere è fuori concorso. C’è stato un film in zona capolavoro, Maldoror di Fabrice du Welz, che racconta la storia nerissima di Marc Dutroux, più noto come il mostro di Marcinelle (ci torneremo presto). Perché fuori? In un cartellone debole come quest’anno, non solo Maldoror doveva essere dentro ma con un minimo di comprensione estetica e tematica sarebbe andato a un premio. Il thriller del maestro giapponese Kiyoshi Kurosawa, che si chiama Cloud, non solo è out of competition ma addirittura non ha anteprima stampa e viene rinchiuso nella proiezione di mezzanotte, con assalto all’arma bianca per cercare di vederlo (come Baby Invasion di Korine).
In coda arriva perfino L’orto americano, il ritorno di Pupi Avati al gotico padano che diventa film di chiusura proiettato l’ultimo giorno, quando i trolley degli stranieri sono già partiti per Toronto e il Lido sembra un set di Ubaldo Ragona. Ma Pupi non poteva mica stare in concorso, si dirà, è un vecchio maestro di 85 anni. Possibile, però in competizione c’era Gianni Amelio che va per gli 80… Detto questo, sfogliando il programma non si trova molto altro cinema cosiddetto di genere. Ora, naturalmente non si pretende Sitges, ma occorre notare come duri il pregiudizio festivaliero verso i generi scuri anche nel 2024. Quale? Sempre il solito: si ritiene che un “grande film d’autore”, costruito in piani sequenza di ampio minutaggio – non tutti sono Tsai Ming-liang – sia per nascita superiore a quello che mena, spara, si sporca di sangue. Fermo restando il rispetto per Venezia, evento oggi sempre più fondamentale nel post-Covid, se proviamo a rovesciare il tavolino forse a sorpresa si scopre qualcosa: e se invece l’horror, il thriller, il noir fossero le forme migliori per leggere il presente?