Parthenope
2024
Parthenope è un film del 2024, diretto da Paolo Sorrentino.
Partenope (con le altre due sirene Ligea e Leucosia) che fu, secondo la tradizione mitologica, la fondatrice di Napoli, era in origine un maschio con la barba e gli artigli ai piedi. Un’immagine archetipa della sirena che ha subìto un costante restyling nel corso dei secoli, fino a divenire il simbolo della irresistibile femminilità della Parthenope dell’omonimo film di Paolo Sorrentino, giunto finalmente in sala dopo i trionfi e le stroncature di Cannes 2024. Una Parthenope interpretata dalla modella ventisettene Celeste Dalla Porta, milanese, e nipote del grande fotografo Ugo Mulas, scomparso nel ’73 quando la nipotina non era ancora nata (quasi un assolo il suo, nel film, considerato il tempo in cui trionfa in scena). Paolo Sorrentino le aveva dato una piccola parte ne È stata la mano di Dio, ma la scena fu tagliata in montaggio ed evidentemente Dalla Porta gli era rimasta impressa, tanto da cooptarla coraggiosamente come protagonista assoluta del suo film successivo (lei s’era mostrata solo in piccoli corti e spot girati dopo il suo diploma al CSC).
Pur avendo amato tutti i film di Sorrentino, dai primi (L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore) fino allo splendido È stata la mano di Dio, nonché la serie tv The Young Pope, Parthenope mi ha annoiato per tutta la prima parte, rivalendosi nella seconda (ma non sempre) grazie soprattutto alle caratterizzazioni fortemente locali dove non aveva un ruolo predominante la pur brava ma, devo dire la verità, piuttosto odiosa modella della Milano importante, assai poco napoletana, affettata nella sua supponenza e nel suo linguaggio spesso fastidiosamente criptico con punte ‘antonioniane’ (mi riferisco al personaggio, ovviamente). In definitiva, mi è parso che il film mancasse di unità (e umiltà), di una fluida continuità di percezione, di perdita del Tutto nell’Uno, un po’ come insegna lo Zen: concentrandovi su un singolo albero dimenticherete di trovarvi in una foresta. Bravissimi tutti i comprimari, in primis Silvio Orlando nella parte del triste docente universitario di Antropologia che ‘coglie’ le capacità da 30 e lode (con bacio accademico!) della studentessa Parthenope chiedendole persino di sostituirlo quando fosse andato in pensione e mostrandole – a lei sola – il figlio disabile rappresentato grottescamente da Sorrentino come una sorta di Bibendum, l’omino Michelin, un grande obeso degno dei reality tv del dottor Nowzaradan, laddove brillano solo due occhietti vispi dentro un testone a palla.
Rewind: Parthenope nasce (ovviamente con parto in mare) in una famiglia, oggettivamente disfunzionale, di facoltosi dirigenti della compagnia di navigazione dell’armatore detto ‘il Comandante’ che indossa sempre occhiali neri e veste di lino bianco e che non può che essere una parodia di Achille Lauro, proprietario di una della maggiori flotte italiane, nonché onorevole monarchico che – lo dice anche nel film – regalava una scarpa prima e una dopo le elezioni ai suoi potenziali sostenitori. Lui è il padrino di Parthenope e, quando lei viene alla luce, si presenta dal mare, novello Poseidone, con una sorta di baldacchino galleggiante dove la ragazza continuerà a dormire nel corso della sua adolescenza, amata dal fratello (che si suiciderà per lei) e dal figlio della cameriera divenuto uno di famiglia. Crescendo Parthenope stravolge i ragazzi di casa (e non), tutti fighi, che strabuzzano gli occhi quando sfila in bikini; ma lei, che ama gli umili, mostra le tette al giardiniere (e rifiuta i ricconi come quella specie di Berlusconi ante litteram che si sposta in elicottero convinto di conquistarla a botte di verdoni). Per di più è colta, sensibile, intelligente, legge John Cheever in inglese, lei e quasi tutti quelli che incontra recitano reciprocamente il mantra ‘che stai pensando?’… insomma, non gliene manca una.
Si parte dagli anni 50: nel corso dei decenni, ha curiose e incredibili avventure (va a letto con un camorrista che la mette incinta, ma lei abortirà) e la fa assistere all’accoppiamento di un povero ragazzo e una povera ragazza, intimiditi e imbarazzati, costretti a scopare coram populo per sancire l’alleanza di due clan rivali. C’è poi un incontro con una diva napoletana (la sempre brava Luisa Ranieri, una sorta di Sofia Loren ormai decadente, stufa di Napoli e delle sue “ipocrisie”). Ed è uno dei momenti più intensi del film. Intensa anche la carrellata sui ‘bassi’ napoletani dei vicoli più poveri, ognuno dei quali contiene realtà quotidiane alla Curzio Malaparte de La Pelle. A proposito di ‘bassi, è ‘basso’ il momento del ‘funeralino’ (stravisto sugli schermi, Vittorio De Sica, fra i tanti, docet) con i cavalli neri che trascinano un carro con la bara del fratello di Parthenope. Sempre ‘alto’, invece, Peppe Lanzetta nei panni del cardinale che si tinge i capelli, addetto allo scioglimento (mancato stavolta) del sangue di San Gennaro cui Parthenope si rivolge per i suoi studi antropologici. Un incontro che finirà con lui che, in chiesa, la titilla in mezzo alle gambe fino a farle raggiungere l’orgasmo. C’è anche un incontro con una potenziale maestra di recitazione devastata dalla chirurgia plastica e appassionata di sesso anale che, nuda, le chiede di baciarla sotto la doccia (si saprà dai titoli di coda che è Isabella Ferrari con il volto coperto da una retina nera).
Piuttosto melenso il finale quando una già anziana Parthenope (divenuta Stefania Sandrelli), dopo aver mantenuto per anni una cattedra di Antropologia a Trento, va in pensione e torna in Campania nei luoghi della sua giovinezza a rimpiangere nostalgicamente (o forse no) i tempi che furono (“Le cose belle son volate via…”, come canta l’alter ego di Pupi Avati ne La quattordicesima domenica del tempo ordinario. Parthenope-Sandrelli incrocia (tocco felliniano come, fra gli altri, il camion-ragno che lancia dalle ‘zampe’ disinfettante anti-colera) un carro di tifosi del Napoli che cantano, storpiandone le parole in senso calcistico, L’estate sta finendo dei Righeira. Prima, negli anni 60 e 70, si ascoltavano Sassi di Paoli, Io sono il vento di Testa e, soprattutto, Era già tutto previsto di Cocciante che diviene una sorta di simbolico tormentone. Peccato per gli sprechi attoriali (Gary Oldman) nei panni di John Cheever, mito di Parthenope, incontrato casualmente nella sua villa caprese, che le confesserà, ormai alcolizzato, respingendo, ovviamente con alti accenti letterari, le proposte della giovinetta, d’essere gay. Diciamo che stavolta Sorrentino, pur avendoci mostrato la consueta bravura tecnica e scenografica, incontestabile (peccato per i troppi ralenti che lascerei a Sam Peckinpah), ha realizzato un film il cui misterioso significato aveva parodisticamente anticipato Maurizio Crozza nella sua imitazione del regista napoletano. Certo, forse Sorrentino ha voluto fare un salto in alto poco riuscito: distribuzione in America di A24, label indie che si è rivelata negli ultimi anni una macchina da Oscar, coproduzione Yves Saint Laurent. E può bastare.