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Sotto il cielo grigio

2024
Titolo Originale:
Under the Grey Sky
REGIA:
Mara Tamkovich
CAST:
Aliaksandra Vaitsekhovich (Lena)
Valentin Novopolskij (Ilya)

Il nostro giudizio

Sotto il cielo grigio è un film del 2024, diretto da Mara Tamkovich.

Ci sono due modi per girare un dramma sociale e politico: il primo è farlo frontalmente, in modo esplicito e didattico, insomma lanciare un messaggio affidato alle parole dei personaggi, la voce fuori campo, la solita filippica e così via. L’altro è come fa Sotto il cielo grigio, ovvero Under the Grey Sky, il film di Mara Tamkovich presentato in concorso al Torino Film Festival e nelle sale dal 28 novembre. La scelta è quella di ricorrere alle regole di genere: per incidere l’affresco del regime bielorusso va in scena un palpitante thriller etico, con due personaggi e una dinamica che ti inchioda per tutta la durata, peraltro umile e ridotta, 81 minuti – una botta e via – che si imprimono anche per la concisione. Più lungo, forse, non avrebbe funzionato. Siamo nel 2020 in Bielorussia. Da poco si sono svolte le “elezioni”, da mettere tra virgolette nell’epoca di Lukashenko, a cui seguirono giorni di grandi proteste in piazza. Lena (Aliaksandra Vaitsekhovich) è una giornalista che trasmette in diretta una scena di feroce repressione poliziesca, viene quindi rintracciata da un drone dell’autorità e insieme al suo cameraman condotta in carcere. Il marito Ilya (Valentin Novopolskij) era pronto a lasciare lo Stato insieme alla compagna, davanti alla mala parata, per ricominciare altrove; con la donna dietro le sbarre tutto cambia e la priorità diventa improvvisamente restare vivi.

Ispirato liberamente alla storia della giornalista Katsiaryna Andreyeva, Under the Grey Sky è un dramma girato in interni, praticamente due stanze e una galera, ma allo stesso tempo profondamente consapevole delle nuove immagini di guerra oggi: basta un frammento social, una manciata di secondi su Instagram o TikTok, per mostrare l’osceno (il fuori scena) del regime e costruire così una forma di resistenza. Da parte loro, Lena e Ilya col senno di poi si interrogano sul senso del loro essere cronisti, cioè aver accettato la consegna di raccontare la verità, con un patto ideale di informazione libera che vorrebbero esercitare per il proprio paese, la Bielorussia. Quando però quello stesso paese lo rende impossibile… Inquadrature nervose, incollate ai personaggi, brevi piani sequenza, uno “stare sul pezzo” da instant movie: la regista gira come se ciò che avviene stesse succedendo adesso davanti ai nostri occhi, e non sia la sua ricostruzione.

Se la parabola di Lena e Ilya compone ovviamente un grido antiregime, la battaglia viene condotta sempre attraverso l’immagine, proprio dentro le inquadrature: come ha fatto Jafar Panahi in Iran, e altri cineasti resistenti, non c’è bisogno di dire troppo perché il gesto decisivo è già accendere l’obiettivo, continuare a filmare disobbedendo a un governo che vuole occultare. E poi, su tutto, nell’arco di un’ora e venti il destino dei protagonisti resta in bilico, oscillando verso la tragedia o la salvezza, un meccanismo efficace che non molla la presa. Il titolo è una produzione polacca, ha iniziato in concorso al Tribeca e poi al Polish Film Festival di Gdynia (Premio Migliore opera prima o seconda), per giungere in competizione a Torino dove è stato presentato da Davide Abbatescianni. Nel circuito d’essai può funzionare anche in sala.