Paolo Sorrentino – Via Caldieri, 66
Mi ero ripromesso, passato il ciclone Parthenope, di scrivere due parole sul libro di Stefano Loparco, Paolo Sorrentino – Via Caldieri, 66, dedicato ai lavori giovanili ed ai cortometraggi del regista de La grande bellezza. Soprattutto, mi ero ripromesso di districare le mie emozioni personali dalle considerazioni professionali sul saggio di Stefano, in quanto coinvolto in prima persona come testimone di fatti, luoghi e persone, con cui ho condiviso parte del mio percorso di vita, in quell’epicentro cinefilo che fu il Centro Culturale Giovanile di via Caldieri al Vomero, nella Napoli dei ‘90, attorno al quale gravitai anch’io in quegli anni irripetibili.
L’analisi dei primi introvabili lavori di Sorrentino, insieme con altre opere coeve in cui era coinvolto come sceneggiatore, soggettista e attore, viene portata avanti tramite intelligenti schede, scandite sulla base delle seguenti sezioni: Commentario, Cifra, testimonianze del regista e di coloro che vi hanno collaborato, Critiche dell’epoca e Curiosità. Il tutto introdotto da due suggestivi cappelli: uno sulla (difficile ma stimolante) situazione cinematografica napoletana tra anni ’80 e ’90, l’altro su Sorrentino cineasta del mondo, per introdurre la sezione relativa ai corti della maturità.
Sulla base di un enorme ed accurato lavoro di documentazione, che vai dai corti in sé alle critiche dell’epoca ricavate da vecchie rassegne stampa, alla fondamentale testimonianza di persone che hanno vissuto quel periodo (tra cui chi scrive), Loparco scandaglia le prime opere di Sorrentino con l’occhio lungimirante di un archeologo del cinema, che sa riconoscere nelle opere giovanili di un cineasta affermato, i prodromi della sua poetica, del suo stile e delle sue ossessioni, embrioni di un cinema futuro che aveva già messo radici in quello che era il presente dell’epoca. Si dirà che tali operazioni siano facili con il senno di poi: pensiamo al celebre corto di Martin Scorsese, The Big Shave, del 1967, in cui era già presente, in nuce, tutto il cinema dell’autore di Taxi Driver e I bravi ragazzi.
Ma lo scandaglio di Loparco è fine e penetrante: egli individua labili segnali che, sottotraccia, rivelano il Sorrentino che sarà, con una prosa che è molto più di una critica lungimirante, ma diventa riflessione acuta e profonda su quelle che sono le matrici esistenziali e filosofiche, nonché le costanti stilistiche e poetiche, del cinema di Sorrentino. Eccone una pillola significativa, a proposito del cortissimo (2 minuti) del 1994, Un paradiso: Progetto apparentemente scanzonato, eppure consustanziale ai topoi della mancanza di senso in ordine alla condizione umana, tema caro al pensiero sorrentiniano a venire, segno che ogni lavoro del napoletano è, nel fondo, sempre autobiografico. Il budget è inesistente, la prestazione è all’incirca, ma il ritmo c’è. Resta l’idea – di Sorrentino – e la mano del morituro che aggiusta l’occhiale mentre canta, gustoso tic dell’irrilevanza destinato, proprio con Sorrentino, a farsi arte.
Non si tratta però solo di questo (che già basterebbe): Loparco individua in quei primi lavori di Sorrentino, nonché di Stefano Russo (sceneggiatore di Black Mafia, 2021 e Glory Hole, 2024) e Gianluca Jodice (autore de Il cattivo poeta, 2020 e Le Déluge, 2024), entrambi sodali all’epoca del giovane Paolo, (insieme con l’attore Bruno Grillo, presenza costante della cinematografia corta vomerese dell’epoca, che firma la prefazione del libro), le tracce di un cinema immaginario nel segno del deforme, del surreale e dell’iperbolico e in nome di un cinema napoletano che – con Dragoncelli di fuoco – avrebbe potuto essere. Ma non è stato. Tracce grottesche che si possono certamente ancora riscontrare, disseminate nel cinema successivo di Sorrentino ma, come giustamente rilevato da Loparco, sono comunque inserite all’interno di un panorama esistenziale più buio, laddove invece, in quelle acerbe opere, erano condite col gusto dello sberleffo e del comico, del gesto iperbolico, bastante a sé stesso. Indizio di un profondo disagio del vivere, ma stemperato all’epoca con la freschezza e l’incoscienza dell’iconoclasta puro, nonché dell’insofferente a qualunque cappello ideologico e sociale. In questa struggente nostalgia per un cinema napoletano di quegli anni che avrebbe potuto essere e che non è stato, rilevabile negli “invisibili” cortometraggi degli anni’90, consiste la cifra più profonda e sincera del libro di Loparco. Per conoscere dunque le opere che contenevano gli embrioni del cinema sorrentiniano, ma anche per immaginare, insieme con Loparco, un cinema partenopeo fuori dagli schemi che tentò di emettere i primi vagiti in quella fucina che era il Centro Culturale Giovanile nella Napoli degli anni ’90, la lettura di Paolo Sorrentino – Via Caldieri, 66 diventa una bussola indispensabile.