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Presence

2024
REGIA:
Steven Soderbergh
CAST:
Callina Liang (Chloe)
Rebecca (Lucy Liu)
Chris (Chris Sullivan)

Il nostro giudizio

Presence è un film del 2024, diretto da Steven Soderbergh.

Tutto si può dire di Steven Soderbergh tranne che si accontenti del noto, che batta strade già battute, che si limiti al compitino. Nella sua lunga e frastagliata filmografia, nell’iperattività che l’ha portato a girare la boa dei 35 titoli – escluse le serie -, ha provato negli ultimi anni a seguire la via maestra dell’innovazione, perfino a dettarla, piaccia o meno. A molti piace: Soderbergh ha ormai il fandom, uno zoccolo duro che lo colloca tra i registi più importanti in circolazione. Io non saprei, ma di certo il punto l’ha segnato almeno in un paio di occasioni in cui si è gettato senza rete sul terreno del genere: il manicomiale Unsane filmato tutto con iPhone 7, e ancora di più il thriller tecnologico Kimi con Zoë Kravitz, uno dei primi Covid movie girato praticamente in tempo reale. Tirando questo filo si giunge a Presence, lanciato al Sundance 2024, un titolo-nome che già dice tutto e segnala una “presenza”, che viene chiamata così anche nei credits, non spettro o fantasma, ma rappresenta comunque l’essenza di una ghost story. Il film infatti è girato tutto da una prospettiva fantasma: la soggettiva di Presenza ci accompagna per 85 minuti, guardiamo coi suoi occhi, ci muoviamo fluidamente con la sua sostanza invisibile perché immateriale.

La storia scritta da David Koepp è presto detta. Una famiglia di quattro persone si trasferisce in una nuova casa: ci sono i genitori Rebecca e Chris (Lucy Liu e Chris Sullivan), in realtà coppia in crisi e segnata da grane anche legali sul lavoro di lei; c’è il fratello maggiore Tyler (Eddy Maday), atleta esperto e abbastanza stronzo; e c’è la protagonista “concreta” oltre alla presenza, ovvero la sorella minore Chloe (Callina Liang) che ha appena affrontato un grave trauma, la morte della migliore amica Nadia sopraggiunta all’improvviso nel sonno e attribuita a un’overdose. Tutto ciò, come detto, noi spettatori lo vediamo dallo sguardo di Presenza, dalla sua rigorosa prospettiva che non cambia, non dirazza né concede altre inquadrature: per questo la storia inizia nella casa vuota, dove l’essenza si aggira da sola, e soltanto dopo viene riempita dagli inquilini. Il poltergeist prima osserva, sembra farsi un’idea del nucleo domestico e poi inizia leggermente a intervenire; il grimaldello lo fornisce l’ingresso in casa di Ryan (West Mulholland), amico del fratello che subito si avvicina alla sorella, a lei potrebbe giovare qualche diversivo nella sua condizione, ma il ragazzo mostra uno strano carattere e manie di controllo… Bisogna fermarsi qui per non incappare nel fatidico spoiler.

Non ci giriamo attorno: il punto della questione, la verifica della riuscita, sta tutta nella scelta di Soderbergh, anche dop e montatore, che qualcuno direbbe stilistica ma invece è proprio grafica, ottica, cioè riguarda cosa mostrare e quale posizione assumere per farlo. Nelle spire di inquadrature avvolgenti e piani sequenza, dunque, si sviluppa questa soggettiva che trova la sua novità nel sostenere l’intera durata del film, ma non è inedita in sé. Molti ci hanno provato: per esempio Mike Flanagan nel quinto episodio di The Haunting of Bly Manor, quando una porzione di racconto viene narrata proprio da uno spetto che realizza gradualmente di essere tale; e una prospettiva fantasma era anche al centro di A Ghost Story di David Lowery, che però non va confusa con soggettiva visto che l’archetipo del fantasma veniva spesso ripreso con inquadrature “oggettive”. Ma il titolo che più mi ha ricordato Presence, non solo per vicinanza di visione, è Here di Robert Zemeckis: entrambi sono film su un luogo, anzi uno spazio, entrambi a ben vedere vengono osservati dallo sguardo di uno spirito, che può essere uno spettro (Soderbergh) o l’obiettivo fisso della cinepresa (Zemeckis). Non è il cinema stesso una storia di fantasmi? Anche i due movimenti di macchina conclusivi, ascendenti, si rivelano molto simili e segnano un’uscita dalla casa come forma di liberazione.
A conti fatti Presence racconta di un fantasma amico, un “mostro” che accorre in soccorso come Eli in Lasciami entrare, finendo per rilanciare il classico dubbio: se i vivi fossero peggiori dei morti? Il congegno a tratti funziona, imprimendo momenti angosciosi e inquietanti, a tratti denuncia la sua natura troppo teorica, di esperimento autoriale coraggioso che però s’incaglia anche nei tempi morti e nei giri a vuoto. Resta un film di fantasmi “nuovo”, uno dei pochi del nostro tempo, come tale da vedere, ma allo stesso tempo conferma che riflettere sul mezzo cinematografico rischia di attutire la dinamica di genere, cioè di fare meno paura.