Family Therapy
2024
Family Therapy è un film del 2024, diretto da Sonja Prosenc.
C’è un cerbiatto che scorrazza fuori e dentro l’asettica villa dei Kralj, annoiata famiglia altoborghese slovena, e che assume su di sé una delle principali metafore di Family Therapy, quinto lungometraggio della regista Sonja Prosenc, nonché caustica deflagrazione in forma filmica di un algido e irritante microcosmo familiare. Tale microcosmo è composto dal capofamiglia Alexander, autore 20 anni prima di un unico romanzo di successo, in base al quale lasciò un lavoro ben remunerato, per dedicarsi alla ricerca di un’ispirazione mai più pervenuta. La moglie Olivia, gallerista dal carattere glaciale e ipocrita, che sguazza nell’ambiente artistoide della upper class slovena (divertente la performance della donna che geme, in assonanza con la scena analoga de La grande bellezza in cui si parodiava Marina Abramović). Infine la figlia adolescente Agata, ribelle, affetta da una patologia non detta (forse oncologica e/o relativa alle ossa), per via della quale le è proibito uscire di casa da sola e per cui le sono caduti i capelli. Come nel pasoliniano Teorema, il fragile equilibrio familiare viene infanto da un elemento esterno, in questo caso il giovane e avvenente Julien, primo figlio di Alexander, avuto quando era giovane (ma neanche tanto) da un’altra donna. Julien apparentemente non fa quasi nulla, ma basterà la sua presenza per sconvolgere la struttura di vetro frangibile su cui si fonda la famiglia Kralj, ben rappresentata da una villa isolata nei boschi, dai geometrici interni vuoti e freddi, chiusa da grandi vetrate che sembrano esporla all’esterno, ma che in realtà la contengono ancor più in un ambiente artificiale, contrapposto alla Natura selvaggia che si trova fuori.
L’unica mossa davvero attiva che Julien compie nel film sarà quella di aprire la porta a una famiglia di rifugiati che chiedono asilo per la notte e che erano già stati ignorati da Alexander lungo la strada di ritorno dall’aeroporto, dove avevano caricato Julien. Ovviamente l’apertura della porta non implicherà una calda ospitalità per i nuovi arrivati, accolti con malcelata diffidenza e fredda compostezza. Ma non sarà nemmeno preludio a una home-invasion, come ci si potrebbe aspettare. Rimarrà come filo narrativo in parte appeso. Per il resto il ragazzo fungerà semplicemente da catalizzatore per far esplodere desideri, paure e frustrazioni comunque intrinseche alla famiglia, senza dover fare in realtà granché. Troverà nella sorella Agata un’inaspettata comunicazione basata su una sorta di regressione animalesca, che li porterà ad imitare i versi degli animali e ad esplorare pericolosamente i boschi nei dintorni della villa. Questo legame avvicinerà i due ragazzi a quel mondo naturale che è escluso da quello artificiale dei Kralj e che viene chiaramente simboleggiato dal cerbiatto di cui sopra. Perfino la glaciale Olivia ritrova per un momento il contatto con la terra, nel corso di una significativa corsa a piedi nudi, in aiuto della donna che aveva accolto malamente in casa sua, che è stata appena scippata di una borsa. Colui che sembra davvero senza redenzione è proprio Alexander, ancora imbrigliato in fumose velleità di scrittore, imprigionato nell’illusione di vivere in una famiglia perfetta e “raffinata”. Tali frustrazioni sembrano trovare sfogo nella partecipazione ad un concorso per entrare a far parte di un improbabile programma spaziale per famiglie (stoccata ad Elon Musk!). Ma le illusioni si sfracelleranno contro il muro della Realtà, conducendo il capofamiglia su una china pericolosa. Come suggerisce però il titolo dell’ultimo capitolo del film (4 in tutto che ne modulano la vicenda), “Redenzione per principianti”, anche Alexander troverà la sua.
La ieraticità nonché l’implacabilità della narrazione si fiutano fin dal primo istante, con quei ralenti sull’auto dei rifugiati che si incendia e quelle marce solenni, tratte dal King Arthur di Henry Purcell, che scandiscono buona parte del film e che donano all’opera quella stessa inesorabilità che ritroviamo nelle atmosfere di un Ostlund, Von Trier, Vinterberg oppure nel Bong Joon-Ho di Parasite, maestri implacabili nella demolizione delle certezze borghesi. Ma tornando al cerbiatto di cui si diceva all’inizio e alle metafore animalesche, senza citare le altrettanto compiaciute immagini sorrentiniane, si potrebbe scomodare tanta filmografia di Bunuel: sia per l’utilizzo delle fiere, sia per il claustrofobico spazio borghese invaso, oppure imprigionante. C’è perfino un momento di neon blu in una discoteca, dove Agata libera finalmente sé stessa dalla parrucca e dalle costrizioni familiari, in cui sembra di entrare nei territori di Refn. Suggestiva la visione di Julien/Ofelia, dall’identità fluida che, come nel celebre dipinto di Millais, galleggia nelle acque di uno stagno ma che, a differenza dello sfortunato personaggio shakespeariano, emerge per riaffermare sé stesso e la sua libertà. La mano registica c’è, ma alla fine non abbiamo trovato davvero nulla di nuovo sotto il sole. Rimane una piacevole ulteriore stoccata a quelle zone di comfort della classe borghese che, sempre più nella filmografia autoriale contemporanea, vengono scardinate con calcolata ferocia.