Fabrizio Sabatucci
Il dramedy come vocazione, ma non solo...
Fabrizio Sabatucci vanta un ricco curriculum che dalla metà degli anni Novanta si è snodato tra pubblicità, teatro, radio, cinema e televisione. Più che mai attivo, lo abbiamo visto nella sesta stagione di Rocco Schiavone e lo vedremo in altre serie imminenti, Il commissario Ricciardi, Morbo K e I casi dell’avvocato Guerrieri. Intervistarlo è stata anche l’occasione per riflettere sul genere crime/poliziesco che domina gran parte della nostra fiction e per disseppellire il prezioso ricordo di un film che finora nessuno ha mai visto…
Il tuo personaggio, Francesco Munifici, torna adesso nella sesta stagione di Rocco Schiavone, dopo essere stato visto nella seconda. Partirei da qui, da questa riapparizione a sorpresa…
Perché Munifici torni in gioco bisognerebbe domandarlo ad Antonio Manzini. Sono tutti i personaggi che vivono all’interno dei romanzi di Manzini su Rocco Schiavone e non so, in astratto, per quale motivo questo personaggio si riaffacci sulla scena. Nella storia questo avviene perché Rocco Schiavone torna a Roma e questo suo amico e collega, ispettore, ha un problema e chiederà a Schiavone di aiutarlo… Questo perché, agli occhi di Munifici, Rocco Schiavone è un po’ un mentore. Vorrebbe diventare come lui. È un esempio, un modello di riferimento. C’è un caso che si è riaperto, che fa da sfondo, ma allo stesso tempo Munifici si apre all’amico collega per un problema personale che non sa come risolvere…
Una curiosità: visto che hai citato i romanzi d’origine di Manzini: tu, voi attori, siete andati a leggerveli o avete basato la vostra preparazione solo sullo script che vi hanno passato?
No, io non li ho letti. Già nella seconda stagione, ci eravamo rifatti esclusivamente alla sceneggiatura. La fortuna è che la mano è la stessa, cioè chi ha scritto i copioni della serie di Schiavone, al 90% è stato lo stesso Manzini. Quindi noi diamo per buono quello che c’è nella sceneggiatura, quello che arriva da lì. I copioni poi cambiano, si aggiustano, quindi vengono sempre continuamente revisionati, fino al definitivo, che poi vai a girare sul set. Ma è una domanda buona quella che poni: perché, per esempio, io ho interpretato qualche mese fa I casi dell’avvocato Guerrieri, un’altra serie Rai con Alessandro Gassman, tratta dai romanzi di Carofiglio. Ecco, qui, a differenza di Manzini che al 90% è quasi tutto preso dai romanzi, hanno sì attinto dall’opera letteraria, ma c’è stato un buon 40, 50% che è stato rielaborato ancora, in sceneggiatura. Quindi i personaggi non sono proprio quelli… Magari sì, l’avvocato Guerrieri è lui, ma altri sono stati riscritti. La serie uscirà prossimanente, credo in autunno.

Foto Alessandro Pizzi
Questa serie tv hanno un grosso successo e diciamo che hanno ereditato, in qualche modo, quelli che una volta potevano essere definiti i “polizieschi”, “crime”, “noir”. Diciamo il genere “criminale”, basato su casi polizieschi e di detection, intrighi di questo tipo eccetera eccetera. Mettendosi dall’altro punto di vista, cioè dal punto di vista dello spettatore, secondo te perché funzionano? Perché sono un genere che va così forte?
Possono essere molteplici, le chiavi. Schiavone si basa molto sullo stesso Marco Giallini che ci mette la faccia e che ha forte presa sul pubblico: piace molto e risulta molto empatico. E, soprattutto, lo abbiamo già detto prima, Schiavone ha dalla sua la forza del romanzo di Manzini, che ha venduto moltisismo. Gli elementi del successo di Rocco Schiavone, sono essenzialmente questi. Io, da attore e appassionato seguo tantissime serie crime, anche quelle straniere, soprattutto per la narrazione. Mi interessa molto la scrittura: il modo in cui arrivano al twist della puntata o della serie stessa…
Quindi sei attratto anche dal processo di scrittura?
Sì… adesso c’è un film che abbiamo scritto in più autori: ed è in valutazione, per poterlo girare la prossima estate. Quindi anch’io da qualche anno scrivo e ora abbiamo questa possibilità. Dita incrociate: vediamo che succede. Tornando a quello che dicevo, sulle serie crime anche estere, ci sono cose fantastiche: e basta che citi True Detective, che ha avuto sempre enorme successo, nonostante per ogni stagione abbiano cambiato i personaggi, i protagonisti. L’ultima stagione l’ha fatta Jodie Foster… Lì vanno a cercare ogni volta un ambiente diverso, c’è una scrittura diversa, un caso diverso… Pensa solo allo sfondo in Alaska, appunto nell’ultima stagione con la Foster. Quello già di per sé crea di suo un velo di mistero, un’atmosfera così particolare e ti offre delle possibilità in più per innestare il crime. Incuriosisce lo spettatore, non solo con le facce degli attori, ma proprio con l’ambiente, con la location, con tutto quello che puoi crearci sopra, con tutto quello che ti può offrire. Noi in Italia abbiamo raccontato i fatti di Avetrana, in una serie eccellente e che partiva da una location molto decentrata, un paesetto che era stato la quinta dei fatti criminali collegati. Sì, le ambientazioni contano molto e contribuiscono alla forza della scrittura… Per quanto riguarda Schiavone, ripeto: credo siano Marco e la penna di Manzini che stanno alla base del successo. Lo stesso discorso vale per I bastardi di Pizzofalcone che unisce Gassman e De Giovanni, quindi una penna e un volto noto, in un binomio che piace molto al pubblico.
Hai menzionato True detective, in cui ogni stagione aveva caratteri peculiari e così distinti: la prima arrivava a toccare i territori del folk-horror… Ecco, cose di questo tipo in generale in Italia nessuno si azzarda a farle. Vero è anche che gli americani hanno disponibilità e risorse ambientali (vedi l’Alaska) che qui mancano. I crime italiani in alcuni casi magari puntano sulla violenza, su un certo verismo (ed è tutta la linea che discende da Gomorra e affini). Però noto che in generale molte serie italiane crime sono frenate, sono più vicine all’idea di una soap: questo dipende dal fatto che poi si rivolgono ad un pubblico che è, diciamo così, molto vasto e che magari dei toni troppo eccessivi non li gradisce?
Questo può certamente valere per la tv generalista. Però, mi vengono in mente due esempi su Sky, Il miracolo e Anna, di Ammaniti che debuttava alla regia… e tra l’altro la seconda a base semi-distopica. Ci hanno provato ad andare un po’ per strade diverse dalla media. Anche Dostoevskij dei fratelli D’Innocenzo…
Sì, quello era un tentativo piuttosto eccentrico rispetto alla norma italiana. Con un risultato buono ma che ha diviso, nel senso che vi sono stati quelli che l’hanno amata, pregiata moltissimo, e c’è chi, invece, magari abituato a un tipo di spettacolo diciamo meno oltranzista, meno forte, ha storto il naso. Siccome stiamo divagando un po’ nel noir, nel crime, ti cito una cosa che, paradossalmente, tu hai girato e che però il pubblico non ha mai potuto vedere. Scusami se tiro fuori questa cosa…
Intendi Roma nuda?
Sì. Sono tra i pochi che ha avuto la possibilità di vederlo….
Io non l’ho invece mai visto finito. Doveva esserci una proiezione alla penultima edizione del Torino Film Festival, doveva andare lì, fuori concorso. Io e Francesco Venditti avremmo presenziato e invece è saltato tutto all’ultimo momento, non l’hanno passato, per via di tutte le rogne legali collegate… ci sono maestranze e attori che ancora devono prendere i soldi per il loro lavoro su Roma nuda. Siamo nel paradosso, perché se un film non può essere mostrato, venduto, come è possibile pensare di recuperare anche un centesimo, per poter saldare i vari sospesi con i ricavi? Ci avevano fatto anche addirittura i biglietti per andare a Torino, a me e a Francesco, e poi hanno annullato tutto. Roma nuda lo girammo ormai 15 anni fa e resta lì nel limbo. Era l’estate del 2010. Iniziammo in un periodo, proprio questo credo, tra febbraio e marzo. Poi ci fu un’interruzione. Entrò un’altro produttore che aveva messo dei soldi, Panzironi, insieme a Massimiliano Caroletti… Fu l’ultima regia di Giuseppe Ferrara. E nel film, oltre a lui, voglio ricordare un amico che è scomparso, Francesco Quinn, figlio di Anthony Quinn e che nel curriculum vantava dei film tipo Platoon. Lui veniva a Roma perché era nella mia stessa agenzia: attore, meraviglioso, meraviglioso. Fu preso per fare uno dei marsigliesi, uno della banda dei cattivi francesi. Voglio ricordare lui, insieme, ovviamente, a Tomas Milian: anche per Tomas è stato l’ultimo film. Lo stesso Franco Califano, che con la sua canzone Roma nuda diede poi il titolo… anche lui scomparso tempo fa. Francesco è morto molto giovane, colto da un infarto mentre correva su una spiaggia. Pensa te… Roma nuda fu interessante, perché giravamo con la sapiente direzione della fotografia di Nino Celeste e fu filmato in un sistema particolare che mirava a ricreare la “pasta” della pellicola di quegli anni. La storia copriva un periodo che andava dal 1968 all’inizio degli anni 70, e raccontava la vita di questo malavitoso di Roma che era Sergio Maccarelli, molto prima dei fatti della Banda della Magliana. Lui era quello che anticipava un po’ la mafia a Roma, ma che, a differenza della Banda della Magliana, era contrario alla diffusione della droga… era ancora solo per i furti, per le rapine. Un malavitoso vecchio stampo. E morì ammazzato, per questo. Prima di interpretare i personaggi… io facevo un amico un po’ folle del protagonista Maccarelli, cioè Francesco Venditti… io e Francesco siamo andati dai familiari, dalla moglie e dalle figlie, a farci raccontare qualcosa su Maccarelli, a prendere appunti, per usarli poi per i nostri personaggi. Ne è nato anche un rapporto di stima e di amicizia. Abbiamo raccolto un bel un po’ di aneddoti, di storie, soprattutto la parte umana. A me interessava, perché c’era ed tanta.
Speriamo che in qualche modo un domani la situazione possa sbloccarsi, e che Roma nuda diventi visibile...
Sarebbe un grande regalo. Soprattutto per Giuseppe Ferrara, per tutti quelli che ho citato e che oggi non ci sono più.
Leggevo nei giorni scorsi alcune tue dichiarazioni relative a Rocco Schiavone, in cui mettevi in rilievo il fatto positivo che lo si è girato “in modo cinematografico”, quindi non televisivo. L’ho interpretato nel senso che non c’è la solita piattezza che tante produzioni televisive, invece, mostrano…
Sì, perché? Perché c’è il tempo. Le parole magiche sono il tempo e i soldi, purtroppo. Viaggiano di pari passo. In altre serie Rai c’è bisogno di correre perché magari hai un piano di lavoro per cui giri quattro, cinque, a volte anche sei scene al giorno, quindi significa che non hai molti ciak a disposizione. Oppure anche dei take, che volgarmente vengono chiamati “tagli”. I tagli rendono una scena molto più ricca. Quindi un primo piano, stacco, una soggettiva, stacco… Per Rocco Schiavone, questo tempo c’è stato e quindi nella programmazione quotidiana non avevi quattro o cinque scene in scaletta, da fare per forza. C’era molto più respiro e questo dava anche al regista una maggiore possibilità di spostare la macchina, fare una soggettiva e fare dei dettagli.
Il tuo rapporto col cinema quando è cominciato? Qual è stato il tuo primo film in assoluto?
Io cito sempre Tre mogli, di Marco Risi. Perché Marco mi ha dato la possibilità di fare un bel ruolo. Fino a lì avevo fatto sempre cose piccole piccole. Stiamo parlando del 1999, 2000
Mari del Sud e Bibo per sempre venivano prima o dopo Tre mogli?
Bibo per sempre venne dopo, mentre Mari del Sud potrebbe essere stato lo stesso anno: anche lì facevo una piccola cosa ma ebbi la possibilità di lavorare con Victoria Abril, che era un po’ la Musa di quei tempi di Almodovar. Ricordo anche una giovane Giulia Steigerwalt, che oggi è diventata regista, per esempio. E c’era un’altra attrice che faceva un ruolo piccolo, tipo il mio. Oggi è un’attrice meravigliosa: Vanessa Scalera. La regia era di Marcello Cesena, che poi è diventato famoso per le parti comiche con la Gialappa’s. Marco Risi mi diede la possibilità di interpretare ndel suo film il marito di una di queste tre donne che spariscono. A Marco devo molto e negli anni siamo rimasti amici, c’erano una grande stima. Abbiamo lavorato insieme qualche anno fa per una serie Rai che si chiamava L’Aquila grandi speranze, che non ebbe molto successo. Nasceva per raccontare i fatti dell’Aquila, della ricostruzione dopo il terremoto. Quindi scrissero una serie ad hoc.
Hai lavorato anche con Ryan Murphy, in Mangia, prega, ama
Certo, nel 2009. Però lì rimase ben poco di quello che girai. Facemmo questa grossa scena, tutto un giorno, con gli attori italiani. C’era Luca Argentero, che aveva un ruolo più grande. Julia Roberts viaggiava attraversi i vari continmenti, e quando toccava l’Italia, a Roma, assaggiava delle prelibatezze locali. Io facevo il maître che elencava tutte queste pietanze. Però poi nel film si è visto poco, perché hanno tagliuzzato qua e là. Una piccola soddisfazione me la sono comunque presa, perché la colonna sonora o un pezzo, non ricordo bene, la fece Eddie Vedder e io finii nel videoclip. Comunque, fu una bella esperienza fatta su un set americano con Ryan Murphy, che poi diventerà quasi il re di Netflix, perché ha fatto un milione di cose…
Ma come scaturisce la scintilla, l’amore, la propensione per la recitazione nella tua vita? Tu cominci, più o meno, a metà degli anni Novanta…
Sì, esatto, era quello il periodo. Si iniziava con le pubblicità, ma io già studiavo. Avevo cominciato a lavorare, a studiare il Metodo sia con Beatrice Bracco sia con Francesca De Sapio. Però, a parte questo, le agenzie mi prendevano anche perché ero un caratterista, riccioluto col baffetto e quindi abbastanza tipizzato. All’epoca facevano fare molti provini per le pubblicità e se ne facevano tanti, devo dire anche pagati bene. Ne feci diverse anche di brand molto importanti. Dopodiché arrivarono i primi provini per le fiction, per le serie TV. Quindi adesso cito Un medico in famiglia, Distretto di polizia, Carabinieri, insomma quelle cose che avevano molto successo sia in Rai sia in Mediaset. Tuttavia, ho sempre mantenuto la mia passione primaria che è quella del teatro e che ancora oggi porto avanti. All’epoca, le fiction tv facevano dei numeri straordinari, avevano degli share paurosi. Quando ancora non esisteva Sky, non c’erano le piattaforme. Funzionavano le fiction e il cinema. Punto.
Tu hai lavorato anche con Michele Soavi, in Attacco allo Stato…
Sì, grandissimo regista. Ecco, lui sarebbe in grado di girare cose horror a ottimi livelli…
Ho scritto un libro su di lui, un paio di anni fa, L’oscuro visibile… Sono molto legato a Michele e al suo cinema. Lui è veramente un grande regista che adesso lavora sostanzialmente per la televisione. Fa queste serie, però ha sempre la volontà di tornare a fare un film horror… Il problema è che il contesto italiano non è, oggi come oggi, il più favorevole. Michele aveva diretto la prima stagione di Rocco Schiavone…
La seconda stagione io la girai con Giulio Manfredonia e dalla terza in poi il regista è stato Simone Spada, che, devo dire, è molto bravo. Ho fatto anche un film al cinema da lui diretto, Domani è un’altro giorno, insieme a Giallini e Mastandrea. Diciamo che Rocco Schiavone è stato sempre in ottime mani.
Il commissario Ricciardi è un altro dei tuoi impegni più recenti: storia in costume, stavolta, ambientata negli anni Trenta…
È ancora più importante che in Schiavone, il mio ruolo nel Commissario Ricciardi, perché è un passaggio trasversale su più puntate. Sono un fascista sovversivo, che mira a mettere in piedi quasi un colpo di Stato… Questa terza stagione dovrebbe uscire a marzo: quattro puntate da un’ora e mezzo l’una. Anche Ricciardi, come Schiavone, ha le radici in una serie di romanzi, di Maurizio De Giovanni, molto letti.
Quindi, fai un “cattivo” stavolta?
Diciamo che questo capitano sovversivo che interpreto non arriva ad essere proprio un cattivo: è uno scaltro, un furbo, se vuoi con dei caratteri un po’ sordidi. Ha una furbizia molto romana… adesso non voglio dire che sia un personaggio “alla Sordi”, però l’impronta è un po’ quella…
Parliamo di Morbo K, altra serie tv, che da quanto ho letto si presenta con una storia molto originale...
Morbo K tratta di una vicenda, in parte vera, connessa alla figura di medico romano, verso la fine della Seconda guerra Mondiale. All’isola Tiberina, in un ospedale molto famoso a Roma, gestito dal Vaticano, cosa succedeva? Questo medico, per salvare più di mille ebrei dai nazisti, dalla deportazione, si inventò un morbo finto, una sorta di infezione, che poteva avere sbocchi da varicella e quindi molto contagioso. Lo battezzò “morbo kappa”. Con questo escamotage, riuscì a salvare moltissime persone.
In pratica, inventò una malattia inesistente?
Esatto, avvalendosi anche di un truccatore, che lavorava nel cinema e che sistemava questi finti malati, truccandoli quando i nazisti venivano in ospedale per delle ispezioni. Dipingeva sulle loro facce rossori, escoriazioni, cose del genere. Organizzavano proprio una messa in scena, istruendo questi degenti perché urlassero e si lamentassero all’arrivo dei tedeschi. Lo spunto di partenza è storico e reale, poi nella miniserie, che è della Rai, c’è una storia d’amore che coinvolge un medico. Saranno quattro episodi, spalmati su due serate. Non so esattamente quando lo manderanno in onda, abbiamo finoto di girare da pochissimo, a dicembre. Io in Morbo K sono lo zio della protagonista, faccio la parte di un ebreo ricco, proprietario di un negozio di tessuti e non sono tra coloro che si salvano, perché finisco vittima di un rastrellamento. La regia è di Francesco Patierno, che ha fatto diverse cose anche al cinema. Morbo K è stato una gran bella esperienza, durata sette, otto settimane, si era creata una “bolla magica” sul set, in cui tutti eravamo al servizio della sensibilità e della drammaturgia del film stesso.

Foto Alessandro Pizzi
Esiste un genere per il quale provi più affezione e per il quale senti di essere più portato?
Direi il “dramedy”. Le commedie alla Virzì… Quel sapore lì, quella frequenza lì. Dove ci può stare il dolce, l’amaro, il dolce-amaro. Quello che facevamo noi, in passato, con il cinema di Scola, di Monicelli. Adesso sto citando dei mostri sacri, però, per darti l’esempio, quel genere di spettacolo….
Oggi il mondo è cambiato, quindi è cambiato anche il cinema, inevitabilmente… il “dramedy” riflette uno stato di cose attuali, con un sapore e direi dei colori che non possono essere quelli degli anni Sessanta e Settanta...
Verissimo. Però, ad esempio, io noto che i francesi riescono ancora, in questo tipo di film, ad esprimere qualcosa di originale…
Questo è un grosso mistero, in effetti. Perché io tutti i film francesi che vedo, anche recenti, riescono a tenermi lì, riescono a tenermi avvinto… Il che con gli italiani accade rarissimamente, ormai…
Anche nella commedia sentimentale, romantica, i francesi sono formidabili. Qui in Italia, invece, si fa poco o niente di questo genere… Se i francesi riescono a farli, vuol dire che funzionano. Ma anche gli spagnoli, che hanno realizzato una serie tv come Machos Alfa. La rivincita del maschio alfa è un’idea geniale, che si presta ad essere sviluppata sul registro del “dramedy”. Poi, ok, loro hanno scelto di andare più verso la commedia, ma da uno spunto simile puoi davvero spaziare in libertà…
Ma io vedo che comunque in giro ci sono autori validi, idee valide: mi hai appena parlato di questo Morbo K, che parte da una storia originale…
Avrebbe potuto diventare tranquillamente anche un film, ma è giusto che vada in tv, perché all’interno ci sono diverse storie da raccontare, diversi archi da chiudere e quindi ben si prestava a una miniserie. Io conosco tanti autori, ho tanti amici, anche registi che propongono, hanno belle idee. Poi, però, bisogna aspettare “il selettivo” e poi, ancora, occorre trovare il distributore… diventa un puzzle infinito. Questo accade soprattutto in direzione del cinema.
Prima hai fatto cenno alla tua volontà di scrivere, di essere autore. Ma anche di girare qualcosa come regista?
No. Per ora, con questo polo autoriale con cui lavoro, abbiamo scritto due soggetti di serie, questo è il secondo. Il primo non è andato in porto, il secondo spero vivamente di sì, perché c’è un’opzione di una produzione. Stiamo aspettando la risposta dei selettivi. Abbiamo con noi un produttore esecutivo che è quello di Luca Guadagnino, Marco Morabito. Quindi la squadra forte c’è, ci sono degli interessi, anche un cast importante. Io, a parte avere partecipato anche al soggetto, sono dentro anche come attore. Quindi, per ora mi mi fermo qui, poi chissà, magari più avanti…