Alessandro Tonda su Il Nibbio

Incontro con il regista del film sul cold case di Nicola Calipari

Il Nibbio esce oggi, 6 marzo, nei cinema italiani. Un film diretto da Alessandro Tonda, con protagonisti Claudio Santamaria, Sonia Bergamasco e Anna Ferzetti, che ripercorre la vicenda di Nicola Calipari, funzionario del Sismi ucciso mentre scortava all’aeroporto di Bagdad, il 4 marzo del 2005, la giornalista Giuliana Sgrena del Manifesto, appena libera dopo un mese di sequestro nelle mani della Jihad islamica. I dettagli sulla fine di Calipari, restano ancora oscuri a distanza di vent’anni dai fatti. Abbiamo incontrato il regista di Il Nibbio, per rivolgergli alcune domande sul film…  

Come nasce l’idea di raccontare una storia così delicata, quella di Nicola Calipari, che ha segnato l’Italia degli ultimi decenni?

Per Il Nibbio arriva una chiamata dalla Notorious Pictures, casa di produzione con cui avevo lavorato al mio primo film, che mi ha proposto questa sceneggiatura scritta da Sandro Petraglia in collaborazione con Lorenzo Bagnatori. È un film molto bello, avvincente sia per il tema trattato che per la figura di questo uomo raccontato. Mi ha affascinato fin da subito perché era un agente segreto atipico rispetto agli altri. Dal punto di vista cinematografico si allontanava dal classico 007 all’americana, ma raccontava un uomo comune che ha fatto cose fuori dal comune. La vicenda e il tema che trattano sono molto importanti.

È stato specificato che fondamentale è stato l’apporto della famiglia Calipari per la realizzazione del film?

L’idea nasce dalla volontà di celebrare la figura di Calipari a vent’anni dalla sua morte, un eroe atipico. È stato importantissimo e fondamentale parlare con la famiglia, entrare in questa storia in punta di piedi e il massimo della delicatezza. Abbiamo parlato tanto con Rosa Villecco Calipari e anche con l’agenzia dei servizi Aise, al tempo Sismi, che ci hanno supportato e consigliato in maniera positiva.

Claudio Santamaria è un grandissimo attore, come ti sei trovato a lavorare con lui? C’è qualche aneddoto dal set che ci puoi svelare?

Lavorare con Claudio Santamaria è stato un vero piacere, era la prima volta che abbiamo fatto qualcosa insieme ed è stato un viaggio molto, molto interessante. È una persona profonda che ha saputo dare delle sfumature importanti a un personaggio come quello di Calipari, che non era conosciuto. Se avessimo trattato una figura iconica come Andreotti o Craxi ci si poteva appoggiare a degli stereotipi, qui parlavamo di un uomo lontano dai riflettori. Abbiamo dovuto lavorare con la famiglia, gli amici, i parenti e l’attenzione di Claudio è stata molto particolare perché ha fatto un grandissimo lavoro fisico, non solo per la somiglianza ma anche per dargli una corporatura esile per non farlo sembrare un macho. Ha trovato delle dimensioni e delle sfumature umane calde di un personaggio che nessuno conosceva.

Come arrivi a Il Nibbio dal punto di vista personale e professionale? Cosa significa questo film per te?

Dal punto di vista professionale e personale questo film per me significa molto. L’ho affrontato con un grande senso di responsabilità nei confronti della famiglia in primis, ma anche nelle istituzioni e come vorremmo tutti che fossero. È un film diverso e atipico nel panorama del cinema italiano. Spero che questo arrivi al pubblico.

Anni fa all’Università lessi La vendetta è il racconto di Pier Vincenzo Mengaldo che sottolineava come le testimonianze siano la cosa più importante per evitare di dimenticare atti atroci accaduti nella storia. In quel caso si parlava di Shoah, ma cosa pensi di questo suo pensiero?

Non ho letto il libro di Mengaldo, ma sul pensiero sulle testimonianze sono d’accordo. Mi viene da fare un’altra citazione che proprio oggi, in alcuni saluti in sala, faceva lo stesso Claudio Santamaria raccontando un’esperienza vissuta in Brasile con un capo sciamano. Questi gli ha detto: “L’uomo che non vuole più imparare è già un uomo morto”. Sì, assolutamente quello che è successo nel passato ci insegna sempre qualcosa, a guardare il presente e a costruire il futuro in questo momento così delicato dal punto di vista geopolitico. Imparare da figure che hanno lottato sempre per la pace e la giustizia è sempre molto importante.

Penso che in un’opera cinematografica ci sia poi da sottostare a un maggior numero di regole perché oltre a raccontare mostrate. Ci sono dei momenti in cui vi siete sentiti in difficoltà o pensavate di non poter dire alcune cose per non offendere la famiglia? Quale pensi sia il limite tra il racconto e la speculazione.

Il limite è sottile. La premura di tutti è stata quella di raccontare questa storia senza essere retorici, allontanandoci dal voler fare un santino di questo uomo e renderlo un supereroe alla Marvel, cosa che non è stato. Era un uomo comune che ha fatto cose fuori dal comune e che ha sempre e solo utilizzato come unica arma la diplomazia. Detto ciò quando affronti una storia devi fare delle scelte, devi concentrare l’attenzione su alcuni aspetti e magari non su altri. Questo è stato un po’ un limite perché l’evento è complesso, contorto e anche contraddittorio da un certo punto di vista aprendo a mille interrogativi. Un altro punto di vista avrebbe potuto aprire ad altri aspetti. La nostra scelta è stata quella di raccontare i 28 giorni di prigionia e di raccontare l’uomo, questo ci ha spinto fin dall’inizio, l’aspetto più caldo, umano e intimo. Le difficoltà sono state tante per le scelte da prendere e anche dal punto di vista tecnico, perché era molto complesso tra il Marocco per ambientare Bagdad e Roma. Dalle fatiche nascono le cose belle e quindi è ovvio che anche l’opinione e il commento della famiglia è stato per me molto importante. Un aneddoto, nei giorni precedenti alla prima visione con la famiglia non ho dormito per una settimana tanto era per me il senso di responsabilità e che piacesse. È stato impegnativo dal punto di vista emotivo.

(per gentile concessione di Youmovie)