FOCUS – Toys. Giocattoli assassini
Viaggio nel cinema di bambole, pupazzi, marionette che uccidono

Perché bambole, pupazzi, marionette – protagonisti di un corposo segmento del cinema dell’orrore – fanno ancora paura? Cosa li rende una presenza così assidua nei nostri migliori incubi cinematografici? Che tipo di ansie può evocare, con tutta la nostra cinica cultura postmoderna, un franchise come Annabelle, la bambola assassina più popolare dello scorso decennio? In occasione dell’uscita in sala di The Monkey di Oz Perkins, è il caso di tornare sopra alla questione. Per provare a rispondere facciamo prima una promessa. Il cinema horror non chiede oggi allo spettatore – semmai lo ha fatto – di credere che il mostro sullo schermo abbia un fondamento nella sua realtà, né gli offre un mero pretesto per simulare emozioni più o meno codificate dal genere e dai film che già conosce. Ciò che è perturbante non è mai stato Dracula ma l’idea di Dracula. O meglio ciò che il pensiero del vampiro – l’impurità della creatura, il legame di sangue eccetera – provoca in me, prospettando un mondo inconciliabile con il mio. Nel caso di bambole e burattini, la mia risposta cognitiva verte invece su ciò che nel film può presentarsi come personaggio animato o arnese inanimato, come soggetto o oggetto della storia. In pratica, come persona o come cosa. Nella nostra cultura le due condizioni sono normalmente ben distinte ma la distinzione sfuma non appena ci troviamo di fronte a Chucky o ai Demonic Toys (per fare nomi a caso).
Quando la loro agency viene giustificata con l’irruzione di un demone o la reincarnazione di un criminale nella materia del giocattolo, questi personaggi varcano un’immaginaria linea rossa e suggeriscono un’altra ontologia, ponendo sullo stesso piano bambole e umani. Il dialogo tra animato e inanimato definisce questa nuova situazione dove allo spettatore non è neppure più richiesta la famosa sospensione dell’incredulità. L’antropomorfismo viene infatti spontaneo anche a noi occidentali, pronti ad attribuire una personalità maligna al computer quando si blocca senza preavviso o allo smartphone che si scarica nel mezzo di una conversazione. Non è necessario quindi scomodare l’animismo delle popolazioni amazzoniche benché, la chiave “antropologica” sia stata anche esplicitamente suggerita. Ad esempio, in Amelia, episodio di Trilogia del terrore (1975, Trilogy of Terror, Dan Curtis), film antologico tratto dai racconti di Richard Matheson. Qui la giovane protagonista (una straordinaria Karen Black), riceve una statuetta africana dall’aspetto particolarmente maligno. Appena il tempo di scartare il regalo e il feticcio si anima, perché lo spirito imprigionato nell’idolo è ora libero di vagare e uccidere Amelia. Quando questa finalmente riesce a dargli fuoco, pensando di essersene liberata, il demone si trasferisce invece direttamente nel suo corpo mentre il sorriso della donna mostra ora la stessa dentatura aguzza del feticcio, a sottolineare la circolarità tra mondo animato e inanimato.

La bambola del diavolo
Tra questo due opposti, la dimensione fisica degli antagonisti può definire anche la scala e la prospettiva – micro o macro – privilegiata dal punto di vista dell’azione. Ne La bambola del diavolo (The Devil-Doll, 1936), ultimo film diretto da Tod Browning, le “bambole” sono esseri umani rapiti e miniaturizzati con un procedimento segreto dal vendicativo Paul Lavond (Lionel Barrymore) che si serve di loro come di tante marionette killer. All’opposto, nella saga Full Moon di Puppet Master (1989-2022), malgrado il titolo, i protagonisti sono i malefici burattini e non il burattinaio, André Toulon, a cui rubano la scena, spostando la visuale e privilegiando la prospettiva dal basso. Da qui Blade e compagni rinnovano ad ogni episodio la loro sfida in stile, davide vs golia, a umani, demoni e nazisti. Altrove tocca invece all’umano dover salire sul ring per confrontarsi con allarmanti animatronics a grandezza naturale, pupazzi elettromeccanici da parco a tema, grandi, grossi e fuori di sesto. Dietro al loro aspetto amichevole e puccioso scopriamo infatti lo spirito di un demone, di un serial killer o di bambini abusati e mortalmente risentiti. E’ il sottogenere ad esempio di Willy’s Wonderland (2021, Kevin Lewis) e da Five nights at Freddy’s (2023, Emma Tammi), ispirato all’omonimo videogame, titoli nati a loro volta sulla scia del successo di The Banana Splits Movie (2019), l’ottima commedia horror diretta da Danishka Esterhazy, che ha riportato in vita i personaggi dell’omonima serie anni ‘60 di Hanna-Barbera per NBC.
Ma il giocattolo, come in un altro franchising targato Full Moon, Demonic Toys, è anche il portale di un’ambigua demonologia dell’infanzia, dove il “mondo dei bambini” coincide con un oscuro oltremondo, incomprensibile e inaccessibile all’adulto. Le varianti sono numerose. In The Boy (2016, Stacey Menear), la bambola opalescente di Brahms, che la baby sitter dovrà accudire come un figlio vero, ripropone ad esempio attraverso il vecchio clichè gotico del manichino, l’idea di un’infanzia alla Frankenstein. La natura stessa dei giocattoli sembra selezionare i propri interlocutori tra gli umani più sensibili e meno inaciditi, come i due anziani giocattolai di Bambole (Dolls, 1987, Stuart Gordon) di Stuart Gordon, oppure infantili, come il bonario Ralph (Stephen Lee), inventando per gli altri una fine grottesca e ingloriosa. Il giocattolo può rivelarsi un guardiano feroce e un implacabile difensore dell’infanzia, proteggendola dagli abusi degli adulti, come l’inquietante Talky Tina, la bambola parlante che in un famoso episodio di The Twilight Zone decide di liberare madre e figlia dal peso di un padre tirannico e anaffettivo (Terry Savalas). Ma la bambola (posseduta) può anche diventare, come Annabelle, la peggiore antagonista delle bambine a cui verrà regalata e che non smetterà di perseguitare. Il rapporto di Chucky, la bambola assassina del franchising Child’s Play (1988 – 2019), con la sua nemesi Andy Barclay, riassume forse, nell’arco di quasi 40 anni, la gamma delle possibili sfumature emotive, dal primo goffo approccio del giocattolo, desideroso di compiacere il bambino, al sadismo con cui Andy, ormai adulto, si vendica di Chucky torturandolo. Reincarnazione voodoo del killer Charles Lee Ray in un bambolotto anni ‘80, Chucky rappresenta un’eccezione nel panorama. Pinocchio riluttante è forse l’unico giocattolo infernale con cui lo spettatore ha potuto identificarsi, ritrovando nel suo humor nero anche un riflesso sarcastico e liberatorio di sé stesso. Come è stato giustamente osservato da qualcuno “Chucky siamo noi”.

La bambola assassina
Il remake del 2019 di Lars Klevberg ne ripercorre fedelmente la origin story ma il bambolotto parlante si è trasformato ora in un companion digitale, un robottino malefico a cui, in un remota fabbrica vietnamita, qualcuno ha rimosso i protocolli di sicurezza per vendicarsi del datore di lavoro. La “bambola assassina” è adesso un killer multi funzione, integrato alla gamma della Kasdan Corporation, la multinazionale cattiva che produce qualsiasi tipo di gadget elettronico – dai droni allo scaldabagno intelligente – e li interconnette. Il restyling di Chucky precede di qualche anno la prima bambola pensata per la generazione di Chat GPT: M3gan (2022, Gerard Johnstone), una AI super intelligente, con un tocco da algida mistress d’altri tempi, che la zia ricercatrice di robotica regala alla nipote Cady perché diventi la sua amica del cuore. E’ un cambio di paradigma preciso, anche se forse non proprio una novità assoluta. Joe Dante aveva in fondo già intuito il potenziale delle AI in Little Soldiers (1998), commedia pacifista sulle tecnologie duali, dove un esercito hi tech di invincibili soldatini killer, equipaggiati da un micidiale microchip militare, finisce per errore in un negozio di giocattoli.
A differenza dei non morti i robot sono percepiti piuttosto come né vivi né non vivi. A metterli gli uni di fronte agli altri ci ha provato ad esempio un vecchio episodio di Puppet Master degli anni ‘90, dove scienziati di un dipartimento universitario di Intelligenza Artificiale, a corto di risultati tangibili, provano a impossessarsi del fluido magico dei burattini, sperando possa fornire la risposta ai loro problemi. Ma erano altri tempi. Oggi, con lo sviluppo travolgente degli algoritmi e l’hype per i modelli linguistici generativi, il cosiddetto “inverno delle AI” è solo un lontano ricordo. I giochi sono cambiati e anche le nostre ansie, più o meno venate di tecnofobia, cercano di farsi strada nell’immaginario dell’orrore tecnologico. James Wan ha spiegato che dopo Annabelle, con M3gan voleva «un film con una bambola assassina guidata dalla tecnologia anziché dal soprannaturale, per una nuova generazione». Con l’AI assassina, che a giugno torna con il sequel 2.0, Wan conferma in fondo la vecchia massima di Arthur C. Clarke, per cui “qualsiasi tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia”. La “placida isola di ignoranza”, a cui alludeva H.P. Lovecraft un secolo fa, adesso non è solo circondata dai “neri abissi dell’infinito” ma anche da un oceano di dati e informazioni non meno ibrido e alieno per la maggior parte di noi umani.
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