Alessio Liguori – Una vocazione internazionale
Il regista di Black Bits ci spiega la sua formula vincente
Alessio Liguori, classe 1981. Un passato nella pubblicità, fino al debutto al lungo, nel 2013, con Report 51, un POV sugli alieni. Seguono, nel 2019, In the Trap, Shortcut, nel 2020, quindi In the Boat, Black Bits e Il viaggio leggendario, tra 2021 e 2023. Tutti film distribuiti o in distribuzione anche sul mercato internazionale. E la vocazione internazionale è la chiave di volta del cinema che Liguori ha fatto e fa. Black Bits esordisce nelle sale italiane il 3 agosto di quest’anno.
Quando ero bambino, leggevo i libri di storia dell’arte di mia madre e mi facevo un sacco di domande sul nostro passato più lontano. Leggevo i libri di medicina di mio padre ed ero affascinato dal corpo umano. Cresciuto in campagna, passavo la notte a domandarmi cosa ci fosse oltre le stelle. Tutte domande enormi, per un bambino… anche per un adulto. Quando sono stato la prima volta al cinema e ho visto la meraviglia del cinema di fantascienza, del cinema d’avventura, quando ho visto i primi dinosauri muoversi sul grande schermo con Jurassik Park, in qualche modo ho trovato una risposta a quelle domande. La possibilità di viaggiare oltre il conoscibile. Sono rimasto profondamente affascinato da questo strumento e quindi, fin da bambino, ho cominciato a leggere libri di cinema, ad appassionarmi all’arte cinematografica e quindi ho dedicato tutta la mia esistenza fondamentalmente a questo. Sono cresciuto soprattutto con il cinema americano, internazionale.
Vedendo Black Bits, al netto dei tuoi precedenti film, si capisce che i riferimenti sono soprattutto al cinema americano, che unisce l’azione all’elemento fantastico…
Sì, è quel tipo di cinema che riesce ad arrivare alla pancia, ma che ha trovato dei codici linguistici che permettono di evadere, comunque, dalla realtà, di sognare, di far passare messaggi anche profondi, ma in assoluta leggerezza. Noi italiani siamo stati anche maestri in questo, basti pensare a Sergio Leone, per scomodare un grande nome. A come non fosse nella nostra tradizione il western e sia stato invece capace, Leone, di reinventarlo e di insegnarlo al mondo intero. Negli anni credo che in Italia abbiamo un po’ dimenticato il nostro passato, mentre sarebbe bene rispolverarlo, perché il cinema italiano ha una grande tradizione e se a questo si unisce il codice linguistico internazionale, sarebbe possibile oggi tornare ad avere il nostro posto a livello internazionale, appunto.
Come giudichi il cinema italiano attuale? Non trovi sia asfittico?
Io credo che nell’ambito del cinema, come in altri contesti, ci siano momenti di passaggio. A volte, quando si va verso la morte… penso anche a quello che è successo dopo la Seconda guerra Mondiale, quando è avvenuta una rinascita: noi ora ci troviamo in un momento di passaggio importante, perché il vecchio cinema è morente, i grandi maestri sono quasi tutti scomparsi, per ragioni anagrafiche, e una nuova generazione si sta affacciando, anche di produttori. Il cinema italiano mi sembra un animale in movimento, in questo momento. E io penso che gli addetti ai lavori, oggi abbiano il dovere di fotografare questa situazione, al di là del proprio lavoro personale, in una visione di insieme, in una visione di Paese… Forse è anche un po’ utopistico, quello che sto dicendo, ma forse anche no. Secondo me, è il momento di guardare al futuro e di ricostruire, non dimenticando il passato. Un momento di passaggio… Difficile dire dove andremo, ma io sono un inguaribile ottimista.
Report 51 è stato il tuo primo lungometraggio, un POV…
Sì. Io vengo dal mondo della pubblicità, ho fatto anni e anni di gavetta, e quando mi sono sentito pronto ad approdare a un lungometraggio, ingenuamente, come molti, ho scelto uno sceneggiatore… perché io nasco come regista puro, per cui lavoro a storie di altri, o su commissione o commissionando io le storie. In quel caso, commissionai una storia, poi bussai a tutte le porte, con grande entusiasmo… trovandole tutte chiuse. Quindi, mi son detto: “Che si fa?”. Era l’anno di Paranormal activity e così proposi ai miei colleghi con i quali lavoravo in pubblicità: “Perché non proviamo anche noi a fare un found-footage, sul tema degli alieni?”. Trovai entusiasmo, io e un mio collega finanziammo in parte questo lungo, che per il resto è stato un progetto che ha visto coinvolte non tantissime persone, essendo appunto un POV. Una parte di questo filmato, diventò virale, dopo che iniziammo a pubblicizzarlo sui siti di ufologia, non di cinema…
Come era accaduto con The Blair Witch Project, in sostanza: fu la medesima strategia…
Eh certo, perché lo spacciammo per un filmato reale. Quando esplose in Sudamerica, entrammo in un altro account Google e postammo il trailer, dicendo: “Questo è un film!”. Da lì, dopo un milione e mezzo di visualizzazioni, iniziarono a chiamarci gli agenti americani e riuscimmo facilmente a vendere il film negli Usa. Questa cosa mi ha riportato in Italia: un caro amico, uno degli attuali proprietari di Panalight, Jarrat, che è stato direttore di studios in Nord Europa ed è molto appassionato di horror, vede Report 51 e mi dice: “Senti, voglio produrti un promo, un trailer, un cortometraggio”. E lì nasce il promo del mio secondo film, In the Trap. Il film non esisteva: avevamo tre mesi per creare qualcosa, disponendo di mezzi illimitati, a Cinecittà Studios. Il mio attuale socio diventa uno dei finanziatori, insieme a David Jarrat, e produciamo il trailer di In the Trap, con il quale iniziamo a girare il mondo, alla ricerca di un produttore. Lì feci esperienza all’American Film Market, poi a Berlino e capii un po’ come funziona il mercato del cinema globale. Alla fine trovammo un produttore che ci credeva. In the Trap venne poi venduto da True Colours in oltre 40 Paesi. E nasce così anche Shortcut, che, con grande sorpresa, nella contingenza di un momento molto particolare nel cinema e nel mondo, riesce ad essere nella top ten degli Stati Uniti, uscendo in 800 sale. E questo fa sì che io venga richiamato in Italia a lavorare a The Boat, con Lotus, Il viaggio leggendario eccetera… Morale: l’audacia vince sempre (ride).
Tra Report 51 e In the Trap, so che hai vissuto un momento di stallo, tra il 2012 e il 2018, giusto?
Sì, perché In the Trap io volevo farlo esattamente così come l’ho fatto. E ho trovato subito i produttori che dicevano: “Ma perché non mettiamo questo attore? Ma perché non mettiamo questo direttore della fotografia? Ma perché ricostruire la casa? Facciamola in una casa dal vero…”. Non sarebbe stato il film che ho girato. Per cui, abbiamo fondato un società di produzione, la Mad Rocket, con altre tre persone, e abbiamo iniziato a girare il mondo, perché in Italia le avevamo provate tutte e non c’era nulla da fare. Trovammo dei coproduttori negli States. Il che risvegliò, di rimbalzo, l’interesse in Italia, ma questo percorso ha richiesto diverso tempo. Poi, dal 2018, quando è partito In the Trap, ho girato una media di uno/due film all’anno. Non c’è stato più uno stop.
Colpisce questo tuo rapporto produttivo con l’America. Non sono in molti ad avere questa prerogativa, in Italia, quasi nessuno.
Guarda, fermo restando che tutto il mondo è Paese, e che i lati positivi e negativi li trovi ovunque, in America ci sono degli approcci che sono differenti. Loro sanno sicuramente di essere uno dei leader mondiali, anche in termini di potenza economica. Cioè, loro dicono: “Noi siamo gli Stati Uniti e facciamo quello che ci pare”. Anche a livello contrattuale, è un po’ così, tranne in rari casi, con le grandi società italiane, francesi, europee. Ma stiamo parlando dei top players. Ma fondamentalmente, quello americano è un mercato puro, vero, per cui si fa una valutazione nel merito, non ci sono tanti giri. E i film esistono perché devono essere venduti… Ma ti faccio degli esempi: quando io parlavo del cinema horror con i produttori italiani, spesso mi sentivo dire: “Ma in Italia non pagano al box office, gli horror”. Io ho sempre studiato i dati, i numeri, e gli obiettavo che le cose non stanno affatto così. Gli horror sono l’unico genere che incassa! Ma ho capito qual era l’errore: sono gli horror prodotti in Italia, che non incassano, non quelli di importazione. Questo perché, fondamentalmente, nell’immaginario collettivo, nella percezione del pubblico, l’horror non è una faccenda italiana e quindi gli spettatori partono già un po’ con la puzza sotto il naso. Poi subentrano pure le esigenze per cui ti dicono che bisogna metterci quel certo attore, per ragioni se vuoi anche comprensibilissime, anche per i bandi stessi. Ci sono dei limiti, dei paletti, dovendo poi anche legarsi al territorio eccetera eccetera. Questo non toglie che ci siano stati nel passato recente anche horror molto validi, a cominciare da Piove di Paolo Strippoli.
Veniamo a Black Bits: come si è sviluppato questo progetto?
Minerva vendette i diritti internazionali di Shortcut e rimase molto colpita dalla distribuzione americana del film. Per cui, chiesero alla mia società, nella persona dello sceneggiatore, che è uno dei soci, di preparare una sceneggiatura. Uno dei produttori di Shortcut, Play Entertainment è coproduttore di Minerva… quindi si fece un po’ la quadra intorno a quello che era successo con Shortcut… insomma, Minerva divenne non più il distributore, ma il produttore. Il progetto, inizialmente, era molto più ambizioso, scritto in un’epoca diversa, in un momento diverso, e ha avuto delle riscritture, sia in fase di produzione ma anche sul set stesso, fino ad arrivare al montaggio. Nel mezzo nasce un’intuizione, perché lessi un articolo a proposito della creazione del neurochip, realtà futuribile che io spero non si realizzi mai, che mi colpì molto e mi ricordò un episodio di Black Mirror, il primo della terza stagione, in cui il mondo virtuale prendeva il sopravvento su quello reale. Dal punto di vista filosofico, giriamo sempre lì. Quindi modificammo la sceneggiatura, partendo da questo spunto e inserendolo nel contesto di Black Bits. Devo dire che la scelta di questi protagonisti e anche l’ingresso di una coproduzione polacca, l’Agresywna Banda, con una figura di altissima competenza dal punto di vista del cinema internazionale, ha fatto sì che fosse messa insieme una squadra che mi ha permesso comunque, in quel momento della mia carriera, di potermi spingere a sperimentare, soprattutto con me stesso, e di riuscire a portare a casa un piccolo film, rispetto al grande cinema americano, ma con l’intento di dargli un’identità ben precisa. Quindi, non puntare su grandissimi effetti speciali, perché, a mio avviso, avremmo sbagliato direzione, ma partire dalla storia di queste due protagoniste, all’interno di un contesto, che è quello del film, con delle ricadute filosofiche alle quali il film non dà risposte definitive. Perché poi, di fatto, è uno spettacolo di intrattenimento, che come l’episodio di Black Mirror, però, lascia delle riflessioni possibili…
Il cast lo hai potuto scegliere personalmente?
Sì, certo, è stato lo stesso lavoro che avevo fatto con Shortcut e anche con In the Trap. Un casting internazionale in cui l’antagonista doveva essere polacco, per motivi di coproduzione, ma anche lì c’è stata la possibilità di scegliere. È un lavoro molto interessante, perché in questo tipo di film quando lanci un casting internazionale, c’è una risposta di due, tremila persone, e in generale tutte di altissima qualità. C’è una prima scrematura che io seguo personalmente, dopo la quale si arriva a chiedere self-tapes, in genere siamo intorno ai 50, 100 self-tapes e da quelli si scende a isolare una decina di attori. E a quel punto, mi sposto su Londra e faccio dei casting mirati, di persona. A me piace lavorare con gli attori e costruire i personaggi insieme a loro. Quindi, la personalità dell’attore a mio avviso è fondamentale. Ed è interessante anche studiare le giuste combinazioni, perché magari ti innamori di quell’attore o di quell’attrice, ma poi, nell’insieme, non funziona. Su Shortcut, che era un film corale, creammo due gruppi e durante i casting li mescolammo, perché ogni attore era straordinario ed era una variante del personaggio, ma noi dovevamo trovare un equilibrio tra i cinque protagonisti. E per Black Bits è stata la stessa cosa. Ci sono stati vari passaggi per riuscire a trovare alla fine questa combo, Yvonne Mai, Jordan Alexandra, di cui sono super soddisfatto. Sai, io poi mi sento sempre al servizio del film che faccio. Intendo: il film non è il mio, anzi, il film non è di nessuno. Il film funziona, quando riesce ad arrivare al pubblico, quando riesce ad emozionare, e questo lo dico prima di tutto da spettatore. Cioè, quando tu passi settanta, ottanta minuti davanti a uno schermo, e ti senti appagato, al di là del tipo di film. Quindi, tutto quello che serve al film, che gli fa bene, in termini di strumenti, di consigli, eccetera eccetera, va accolto: pur rimanendo il regista un po’ il timoniere del film, è molto importante l’ascolto ed è molto importante avere davanti agli occhi sempre e solo una priorità, cioè che il film funzioni. Bisogna essere generosi, per fare bene questo lavoro. C’è un bellissimo libro di un giornalista francese, L’occhio del regista, che pone la stessa domanda ai più grandi maestri del cinema mondiale: qual è il segreto di un film che funziona? e alla stessa domanda ognuno risponde in una maniera diversa.
Tu sei molto critico nei confronti del tuo lavoro, quando rivedi il film che hai fatto?
No, ho imparato ad avere un rapporto sereno e a lasciar andare. Il momento più critico per me è stato arrivare al primo film, perché ovviamente non sai se il tuo gusto, quello che a te piace, ma anche le tue capacità, poi possono incontrare il mercato e il pubblico. Quindi la mia paura era soprattutto legata al primo film. E devo dire che fino alla delivery finale, lì sono stato quasi maniacale. Poi ho imparato che, in realtà, è sbagliato. Perché in alcuni casi della post-produzione, ci sono stati dei passaggi salvati, a mio avviso, in quel momento, dal montatore e dal Sales agent. Perché la mia ossessione per raggiungere la perfezione, che poi non si raggiunge mai, mi faceva dare tanta importanza all’errore tecnico, a quella scena non venuta benissimo, e perdevo la percezione della scena stessa rispetto al pubblico. Magari veniva tecnicamente meglio, ma avrebbe perso la magia che quella scena doveva avere. Doveva far paura? Doveva far paura. E devo dire che in quel momento, la cosa più saggia che ho fatto è stata fidarmi del montatore, che avevo scelto con molta attenzione, cercando un autore e un contraddittorio, e poi del Sales agent, che in quel caso era True Colors. Perché, fondamentalmente, il pubblico non lo va a vedere quell’errore tecnico, ma vede se quella scena gli arriva o meno. Ora dedico tutto me stesso a un film, ma con una serenità maggiore, perché, comunque, fino a oggi tutto quello che ho fatto ha avuto un riscontro in termini sia di mercato, di rientro e di pubblico. Poi, è chiaro, come sempre capita, ci può essere chi non ama il tuo lavoro, ma mediamente, ad oggi, ho avuto un percorso di cui sono molto contento, perché è stato esponenziale, crescente, e tutte le cose che ho fatto hanno avuto una distribuzione internazionale: con mia grande sorpresa, anche The Boat, che era girato in italiano, con attori italiani, sta avendo un ottimo riscontro in ambito internazionale.
Dove è stato girato Black Bits?
L’ho girato in cinque settimane in un bosco, nel Lazio, che abbiamo cercato perché potesse sembrare una foresta nord-europea. E, nel viterbese, straordinariamente, scopriamo un esperimento botanico, dove avevano piantato alberi nordeuropei. Mentre, invece, i moduli che si vedono nel film, sono stati costruiti da zero. Il tempo di realizzazione è sempre legato al contesto. In the Trap, lo feci in tre settimane e mezzo, ma era un film fatto in studio, per cui è stata sì una corsa contro il tempo, ma tre settimane e mezzo non avevano imprevisti. Con Black Bits e The Boot, c’era il problema del meteo. The Boot era interamente girato in mare, Black Bits interamente girato in esterni, nei boschi, quindi c’era la variabile meteo. Per cui esiste sempre qualcosa di non ponderabile né calcolabile, e avere un margine di sicurezza in questi casi è fondamentale. E cinque settimane, comunque, arrivi preciso preciso. Invece, Il viaggio leggendario, che è un fantasy per bambini, abbiamo scelto di girarlo tutto dal vero, quindi il mondo di Camelot, di Atlantide eccetera, sono castelli realmente esistenti. E lì, in accordo con Lotus, abbiamo scelto di passare da cinque a quattro settimane, per far sì che il costo di quella settimana risparmiata andasse sul production value del film. Per cui, in quel caso abbiamo dovuto essere delle macchine da guerra, chirurgiche proprio. Con margini di errore pari a zero. Anche con Black Bits siamo arrivati pelo pelo. E un’altra cosa che andrebbe insegnata a chi oggi approccia questo lavoro, è che non importa solo il risultato, ma anche come ci arrivi, il che significa avere rispetto dei soldi e del produttore. Se il cinema deve essere un processo industriale, occorre smetterla con quella “lotta di classe”, tra la parte artistica e la parte produttiva. Bisogna muoversi insieme, a braccetto. Devo dire che fin qui ho sempre avuto un ottimo rapporto con le produzioni, con il comparto produttivo. E poi è una cosa che si sente, nei film.
Ora il percorso di Black Bits quale sarà?
Adesso esce nelle sale italiane, poi verrà presentato all’American Film Market. Erano già state mostrate delle clip a Berlino e a Cannes e ha trovato interesse da parte dei distributori internazionali. Siamo sempre lì, è una questione di linguaggio: come riempi il frame e come muovi la macchina da presa: un linguaggio internazionale parte sempre da questo. Sono però curioso di sapere che cosa ne pensi di Black Bits tu…
Ti dico solo una cosa: sono “costretto” a vedere un sacco di film, e dopo un quarto d’ora, venti minuti, nell’80% dei casi, se mi passi l’espressione, mi rompo i coglioni. Black Bits, invece, mi ha tenuto lì. E ti garantisco che per me è un segno molto positivo. Cioè, mi ha tirato dentro, Black Bits. Poi: una cosa interessante, secondo me, è che non tutto quadra perfettamente, ma a me piacciono i film di questo tipo. Non c’è lo spiegone per forza, finale, non si vuole trovare la quadratura del cerchio a tutti i costi. C’è una quota di ambiguità o di inespresso, che fa parte della forza della storia e del film.
Guarda, sono molto contento di quello che dici, perché ho fatto delle litigate feroci su questo. Feroci proprio (ride). Sai, fai litigate feroci, ma finché il film non lo vede qualcuno, tu non sai se quella che hai preso era la direzione giusta o meno… C’erano due scuole di pensiero: una era quella per cui bisognava spiegare tutto: “Bello il film, però avremmo voluto che si capisse bene ogni cosa”. E l’altra, che è quella che ho abbracciato, era di lasciare queste sospensioni, di non voler “far quadrare i conti” a ogni costo. Quando mi viene proposto un film, c’è un elemento, pensando sempre al box office, che è l’elemento bankable: e allora, o hai la grandissima star, ma gli attori veramente bankable, sono inarrivabili, per noi. Oppure, devi avere quello che io chiamo “l’elemento di acchiappo”: l’alieno, l’esorcista… cioè, l’elemento “luna park”, che serve per il pubblico di affezionati, per cui, se confezioni bene il film, la gente andrà comunque a vederlo, perché interessata a quell’argomento. Black Bits non ha nulla di tutto questo. Quando ho approcciato la sceneggiatura, ho detto: “Non abbiamo le star, tranne il polacco, Sebastian Fabijanski, che è famoso, però solo in Polonia. Non ci sono elementi di acchiappo. Come posso far sì che la gente si possa interessare al film, così come io mi potrei interessare al film?”. E le due cose che mi sono detto, sono queste: la prima, non bisogna capire dove va a parare ila storia; tu inizi a vederlo e ti chiedi se è un film di fantascienza o un thriller… che cos’è? Da spettatore, mi domando che cosa mi impedirebbe di fare zapping e mi rispondo: non sapere dove va a parare il film. Scomodando un grande esempio e un film che amo: Dunkirk. In Dunkirk non c’è spiegone alcuno. Tu inizi a guardare il film e non sai nulla del contesto, di quello che sta succedendo. Vedi solo un soldato che aspetta. Poi arrivano degli aerei che bombardano… Ma che sta succedendo? E se anche minimamente sono riuscito ad ottenere lo stesso effetto con Black Bits, sono pienamente soddisfatto…