Antonio Climati scompare a 84 anni
L’ultimo grido dalla Savana
Si è spento a Roma, ieri 9 agosto 2015, il regista e direttore della fotografia Antonio Climati. Era nato a Roma il 14 novembre del 1931 e la sua celebrità nel cinema fu sostanzialmente legata all’ideazione e realizzazione, insieme a Mario Morra, di due capisaldi del cinema sensazionalista-naturalistico degli anni Settanta, Ultime grida dalla Savana (1975) e Savana violenta (1976). Climati aveva lavorato nel team di Jacopetti e Prosperi agli albori della nascita del mondo-movie italiano, in Mondo cane, Africa addio e Addio zio Tom. Insomma, una figura centrale ed essenziale nell’ambito dei documentari scandalo che segnarono l’eccellenza italiana. Noi vogliamo ricordare, Antonio Climati e la sua opera, riproponendo un lungo e complesso saggio che apparve nel numero 23 di Nocturno seconda serie, contestualmente al book Mondorama che esplorava, come da titolo, le varie sfaccettature dei mondo-movies italiani.
Nei film di Antonio Climati e Mario Morra la medesima scena può suscitare attrazione o repulsione, a seconda delle proprie personali convinzioni, ideologie, passioni ecc.: per esempio, ci si possono mettere le mani sugli occhi quando in Ultime grida dalla savana (intitolato originariamente La grande caccia) vengono uccisi gli elefanti o i canguri se si è animalisti, oppure tenerli ben spalancati se si amano i safari. A ciò si può aggiungere che i film dei due registi ci raccontano una serie di leggende (sto parlando in senso stretto: si rammenti il ritrovamento dell’alligatore nelle fogne di New York, leggenda metropolitana che Savana violenta ha contribuito a diffondere), e noi crediamo – solo per lo spazio della narrazione cinematografica? – a quelle fra esse che meglio rappresentano il nostro immaginario, ovvero sono la proiezione dei nostri sogni e/o dei nostri incubi; a questo proposito, è bene intendersi subito: le verità che ci dicono i documentari dei registi di Dolce e selvaggio non riguardano affatto il loro immediato contenuto (per fare degli esempi, non documentano per nulla un attacco a un villaggio indio o la cattura di due cannibali presi con le mani ancora insanguinate del loro pasto), bensì la situazione della cinematografia documentaristica di massa negli anni fra il 1970 e il 1980 e la situazione dell’immaginario collettivo nell’Italia di quegli stessi anni, cioè il modo in cui gli italiani dell’epoca si rappresentavano, ad esempio, la natura, gli africani, gli indios ecc.ecc. – rappresentazione che, com’è ovvio, può avere dei legami anche molto labili ed assai incerti con la realtà non filmica dei soggetti e degli oggetti in questione. È in questo modo che Ultime grida e le altre pellicole di Climati e Morra vanno interrogate (e forse, sia pure con gradazioni diverse, tutti i documentari): non chiedendo loro di essere opere che si facciano in un certo modo da parte per mostrare la realtà “reale”, “vera”, che giacerebbe al di sotto di esse, ma prendendole come già dotate di una verità autonoma non orientata verso qualcosa di esterno (all’infuori delle loro condizioni produttive e psicosociali) che rappresenterebbero attraverso uno specchio più o meno fedele, secondo un’idea dell’arte volgare e assai dura a morire.
Fatta questa doverosa precisazione, torniamo ora a parlare dell’immaginario del pubblico per dire che esso, naturalmente, è creato innanzitutto dalle istanze degli autori e dei produttori; proprio per questo mi pare necessario approfondire il discorso sui due versanti, in molti casi convergenti, coi quali i fantasmi – questa volta espressivi e commerciali – si misurano: la sessualità e la violenza (in sintesi: la “natura”). Per quanto riguarda il primo aspetto, mi pare che la evidente omofilia – presenza ben più marcata anche solo quantitativamente rispetto all’eterosessualità nei documentari maggiormente noti della coppia di registi – meriti un esame approndito; essa può essere esemplata nei modi più diversi: col grottesco barocco del membro elefantino esibito in tutto il suo bomarzesco splendore in Savana violenta (falloforia volta a celebrare la ritrovata potenza dell’attore di film porno), oppure col rito africano della fertilità – inventato di sana pianta, ma assai credibile per un occidentale etnocentrico –, con le altre numerose riprese di africani nudi, vivi o “morti” che siano (il pene in dettaglio dell’indigeno trascinato via dopo la lotta, ancora in Savana violenta), con l’indio sodomizzato da un bastone infuocato, sempre nel film citato, e dulcis in fundo – comunità naturiste e hippie a parte – con la danza conclusa ritualmente dalla masturbazione (questa volta in Ultime grida dalla savana).
Sulla sequenza ora ricordata credo valga la pena di soffermarsi in dettaglio per sottolineare la perizia con cui venne girata:
1) Mezzo busto di 3/4 degli africani che saltellano.
2) In campo medio, dei corpi nudi visti da dietro.
3) In campo lungo, degli uomini visti attraverso la sterpaglia e gli alberi.
4) In cl, altri africani nudi che avanzano nell’acqua bassa.
5) Totale laterale di un uomo che avanza nell’acqua.
6) In cl, degli africani in acqua.
(Fin qui le riprese non presentano particolarità degne di nota, ma esse sono soltanto l’introduzione a quelle che seguono, ben più morbose:)
7) Mb iniziale ripetuto, ma questa volta al rallentatore (come tutte le scene successive).
8) Piano americano di un indigeno che saltella visto da dietro.
9) Pa dello stesso mentre si volta verso lo spettatore, svelando il membro.
10) In cm, diversi africani danzanti.
11) Cm come il precedente, ma con ripresa dal basso.
12) Dettaglio laterale dei membri svolazzanti.
13) Dl come il precedente (ma questa volta a velocità normale).
“Proprio quello che non avrei mai voluto vedere / Proprio quello che ho sempre desiderato vedere”. Ma al di là dell’attrazione o della repulsione che la sequenza può suscitare in ciascuno di noi, essa è perfetta in quanto riesce nella non facile impresa di cogliere e immortalare il momento dell’apparizione del sesso – arriva non un attimo prima e si chiude non un attimo dopo – senza eccessiva leggerezza o eccessiva pesantezza, con tutta probabilità grazie anche alla scelta, decisamente indovinata, della danza (dunque del movimento), corretta però dal rallentatore (dunque la staticità): la combinazione che Climati e Morra riescono così a creare è un miracoloso esempio di striptease cinematografico che ha il valore di un modello generale e che vedrei volentieri applicato, non pedissequamente ma come struttura, anche ad immagini femminili. Per il 1975, anno in cui Ultime grida dalla savana venne distribuito nelle sale, la scena di “fissità dinamica” su cui mi sono diffuso appare senza dubbio assai ardita e priva di precedenti, ma occorre ricordare che “la richiesta della sensazione ad ogni costo è… l’unico tipo di ricerca che ancora permetta al documentario di raggiungere – assai di rado – gli schermi del cinema” (Dizionario universale del cinema, a cura di F. Di Giammatteo), e dunque a maggior ragione la ricerca della sensazione sessuale. D’altro canto, all’epoca l’erotismo eterosessuale veniva già rappresentato a sufficienza nei film soft italiani, e dunque non pare troppo strano che i produttori e gli autori di Ultime grida si siano orientati verso una nicchia di mercato – per la verità piuttosto ampia visto il successo della pellicola in questione e delle due successive – che includesse anche omosessuali (latenti o meno), donne e, più in generale, individui di gusti particolari.
Veniamo ora all’altro versante (per il quale Climati e Morra hanno ricevuto le critiche più accese): la violenza. Anche in questo caso vi è un episodio, sempre tratto da Ultime grida dalla savana, che emblematizza in un sol colpo un po’ tutto l’atteggiamento dei registi rispetto ad essa: mi riferisco al celebre “filmato amatoriale” nel quale un incauto turista (tale Pitt Doenitz) viene sbranato da una leonessa in una riserva dell’Angola. Come per il caso precedente, ecco la successione delle inquadrature che ci interessano:
1) Piano americano laterale di un turista che filma dall’auto; sovrapposta all’immagine, una didascalia informa dell’amatorialità delle riprese che seguiranno dicendo anche dove e quando vennero girate.
2) Pa di un altro turista visto da dietro, mentre esce dal finestrino dell’auto per filmare.
3) Totale laterale di una leonessa.
4) In campo medio, un’auto con un cineamatore che si sporge.
5) In campo medio, un’auto mentre da essa scende un altro cineamatore.
6) Tl del cineamatore che si avvicina a dei leoni.
7) In Cm, la leonessa che lo assale alle spalle.
8) Dettagli disordinati dell’auto (la cinepresa si muove caoticamente).
9) Cm della leonessa e del turista che lottano a terra.
10) Primo piano frontale della leonessa e del turista visto da dietro.
11) In Cm, due leonesse ed il cineamatore a terra: una è ripresa lateralmente e l’altra è sopra l’uomo.
12) T da dietro di un turista che scende dall’auto.
13) In Cm, lotta fra il cineamatore e la leonessa.
14) In Cm, due leonesse ed il cineamatore: la lotta cessa.
15) Mezzobusto laterale della moglie e dei figli urlanti della vittima.
16) Ppl di un bambino piangente
17) In Cm, le leonesse e il cineamatore sanguinante che sembra rianimarsi con uno scatto repentino.
18) Ml della moglie in lacrime che apre la portiera dell’auto e quindi la richiude
19) In Cm, le leonesse sul cadavere; una di esse mette in fuga un’altra belva
20) Pal di un turista che scende dall’auto scagliando qualcosa (la propria cinepresa, come si dedurrà dall’inquadratura seguente) contro le fiere.
21) Ppl di una leonessa che si allontana nel folto con la cinepresa fra le zanne.
22) Fermo immagine dell’inquadratura precedente.
23) In Cm, un leone che ruggisce accanto a un brandello di carne (forse, dalla ripresa non è del tutto chiaro).
24) Dettagli disordinati (la cinepresa si muove caoticamente).
25) Schermo nero.
Questa descrizione, della cui lunghezza mi scuso, era tuttavia indispensabile per far notare gli artifici autoriali utilizzati in questo caso da Climati e Morra allo scopo di dimostrare, come vedremo fino ad un certo punto, la veridicità – l’ingenuità – di quanto narrato: che il fatto sia “realmente accaduto” è innanzitutto la didascalia a dircelo, e a mettere quindi lo spettatore nella posizione di credere alla buona fede degli autori; a rinforzo di essa, ecco i movimenti disordinati della cinepresa a mano (ovviamente per lo scatenamento emotivo determinato da ciò che sta accadendo; ancora una volta: “Proprio quello che non avrei mai voluto vedere / Proprio quello che ho sempre desiderato vedere”); alla fine, però, a togliere credibilità alla scena (se ancora ce ne fosse bisogno dopo l’abile montaggio di campi e controcampi) ecco il fermo immagine della leonessa che tiene la cinepresa in bocca – una sottolineatura che ha il valore di una strizzatina d’occhio allo spettatore. Proprio a partire da quest’ultima ironica immagine, e tenendo conto che l’arte in un modo o nell’altro ha sempre a che fare con un dramma, si può ben dire che essa non è affatto il surrogato di un delitto bensì il suo perfezionamento: come, infatti, se non attraverso l’artificio della belva con la cinepresa fra le fauci, si poteva concludere meglio l’episodio? Nella realtà la scena dell’aggressione al turista sarebbe stata senza dubbio più povera, più scarna di particolari drammatici; la mano del cineamatore, se pure avesse filmato qualcosa, avrebbe tremato in molti altri momenti… insomma, ci sarebbe stato tutto l’attrito problematico che il quotidiano presenta senza offrire in cambio nessuna risorsa in termini di eleganza formale; nella vita d’ogni giorno, per dirla con una battuta, non si può “finire con stile”.
A questo punto, è opportuno fare qualche osservazione più generale. I detrattori di Climati e Morra (che, non c’è dubbio, sono moltissimi) dovrebbero quantomeno ammettere un’evidenza: una cosa è andare in piazza per assistere a un’esecuzione in piena regola – vera, in altri termini – come accadeva fino a non molto tempo fa in Occidente, e un’altra cosa è vedere al cinema un – finto – pasto umano di leoni. Vogliamo pensare fino in fondo a ciò che significa l’inestimabile eliminazione del complesso di colpa che comporta questo secondo caso? Al fatto che ci consente di essere asociali, distruttivi, irresponsabili e assassini a cuor leggero, senza far del male a nessuno, secondo l’etica olimpica dei cartoni animati (la sola etica seria ed accettabile), che fa morire i suoi eroi soltanto per farli risorgere un attimo dopo? Inoltre, quegli stessi detrattori, che di solito pongono censure moralistiche più che estetiche, neppure sembrano rendersi conto che in esse è contenuta un’intelligenza segreta di cui loro sono soltanto degli strumenti, necessari per rendere appetibile la trasgressione per l’appunto vietando, ma situando il loro divieto ad un livello ben diversamente mediato rispetto a quello delle epoche precedenti; non più: “Non guardare le esecuzioni in piazza”, bensì: “Non guardare i film troppo violenti”. È proprio così, d’altra parte, che avvengono i mutamenti antropologici – con passo di lumaca zoppa.
Nel caso di Climati e Morra, la zoppìa della lumaca in questione diviene abbastanza evidente già con Turbo time, dove le immagini di repertorio d’incidenti automobilistici e motociclistici avvenuti in pista (a Villeneuve, Lauda ecc.) la fanno assolutamente da padrone, lasciando assai poco spazio ai momenti di estetica dell’equivoco a cui i due registi ci avevano fin qui abituati; anche la sessualità, secondo il consolidato binomio “donne e motori” fa capolino nel film, ma si tratta di un’esercizio piuttosto stanco (proprio nulla a che vedere con il ballardiano Crash, per il quale com’è noto occorrerà attendere Cronenberg). In ogni modo, lo sport è fatto per la diretta tv, e non per il cinema: se ce ne fosse bisogno, Turbo time ne è la riprova. Con Dimensione violenza, firmato dal solo Mario Morra, l’attenzione al “veramente accaduto”si fa ancora più pronunciata, esibendo documenti televisivi di fatti storici contemporanei di forte impatto mediatico: ciò forse perché Morra, in fin dei conti, proviene dal montaggio, e l’associazione del materiale di repertorio è un richiamo troppo forte per lui; resistergli diventa impossibile, il che, in fondo, equivale a dire che il documentarismo cinematografico viene ucciso da quello televisivo (fatto assolutamente incontestabile, questo). Ecco allora che l’estetica cimiteriale del regista s’imprime a tutto tondo sul film senza alcuna leggerezza erotica ad equilibrarla: lo spettatore si trova di fronte all’esplosione d’una atomica, agli attentati a Sadat, Reagan e Giovanni Paolo II (puntigliosamente proposti in rapida carrellata, uno dopo l’altro)… c’è tutto il necessario per ricordarci che la nostra è pur sempre la cultura della scienza e della guerra, delle storie tratte da “fatti realmente accaduti” e della medicina che confina con la pornografia (a questo proposito si veda il parto proposto da Morra nelle sequenze iniziali della pellicola). Con Dimensione violenza non ci troviamo soltanto di fronte al fallimento di una singola opera (cosa in sé di scarsa importanza), ma anche al fallimento d’un progetto di estetica – forse per scarsa autocoscienza – che poteva dare frutti di ben altro rilievo alla cinematografia italiana, frutti che ritroveremo invece in Giappone nell’intollerabile, ma totalmente falso (e non è precisazione da poco), Guinea Pig: Devil’s Experiment. Peccato che Climati e Morra abbiano lasciato ad altri l’esperimento di un film che fosse davvero diabolico, cioè simulacro della verità più abietta.