Body Odyssey, l’ultima frontiera del corpo

Il film di Grazia Tricarico con Jacqueline Fuchs: recensione e dialogo con la regista
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Corpo, ultima frontiera. Body Building, letteralmente costruire corpo. No pain, no gain. Esperire la trasformazione estrema. Tendere alla crescita continua. Guardare. Essere guardati. Lo abbiamo sempre sostenuto: il cinema si fa con il corpo dell’attore, piuttosto che con il cervello del regista. O meglio: la visione di un autore deve farsi materia, carne ed ossa tangibili sullo schermo, affinché lo spettatore se ne nutra, nell’eucaristia pagana della rappresentazione filmica. Detto diversamente, il cinema è un rituale che necessita di vittime sacrificali, perché lo spettatore non ha pietà. No mercy, no regret. Il corto circuito, il corpo circuito, si verifica nella collisione di culti, quando cioè il soggetto-oggetto dell’opera è una femmina ipertrofica, consacrata ad un’egolatria consapevole quindi diversamente fanatica. Parliamo di Body Odyssey, il primo lungometraggio di Grazia Tricarico.

Tricarico è regista italiana, ma sembra porsi come corpo estraneo rispetto allo scenario nazionale degli esordienti e non. Ha davvero qualcosa da dire, nel senso che ha davvero qualcosa da mostrare. Il film è il racconto mitopoietico di Mona – la straordinaria, gigantica bodybuilder Jacqueline Fuchs – atleta che gareggia per Miss Body Universe, sorta di campionato mondiale per le iron women. al femminile. Preparazione fisica eppure mistica, tutti i muscoli portati allo spasimo in un anelito di parossistica perfezione. È allenata da un coach proteiforme, Kurt – Julian Sands, alla sua ultima apparizione -, padre pusher aguzzino lenone. “Mona è la statua/Galatea, Kurt è uno scultore/Pigmalione.”, dice Tricarico. La dicotomia di questo rapporto biunivoco, esclusivo, psicotico esplode sulle superfici dei deltoidi, dei bicipiti, dei quadricipiti, e attraverso essi sprofonda in una subcoscienza fatta di desideri obliqui, liquidi, quasi amniotici. Mona vive tra palestre (s)consacrate e paesaggi naturali, pare in simbiosi con un lago di montagna dal quale trae linfa e ristoro, ma soprattutto si ascolta. Ascolta da dentro, a l’interiour verrebbe da dire. Ascolta un’identità femminile rombante ed urlante, che rischia di soccombere alla trasformazione cui ella stessa si vota e si condanna. Mona ascolta Corpo, e Corpo, in un brodo primordiale di suoni, ha una voce cavernosa. Maschile.

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Tricarico spiega: “Abbiamo lavorato molto al suono di BO, fin dalla sceneggiatura, perché il suono è un altro livello di scrittura. Spesso è un suono a suggerirmi lo sviluppo di una scena o di una sequenza. La voce di Corpo è androgina perché Corpo nel film rappresenta il compimento della trasformazione, la simmetria perfetta a cui ambisce Mona; in un certo senso è la voce di Mona proiettata nel futuro. L’uso di anabolizzanti modifica il timbro della voce. Volevamo rendere Corpo un personaggio del film non solo con la voce, ma con l’intera colonna sonora, e volevamo farlo dentro e fuori dal corpo di Mona. Cercavamo un equilibrio tra contenitore e contenuto anche sul suono. La voce di Corpo tecnicamente è una “trinità” che unisce la voce di Corpo che ha ultimato la trasformazione, la voce di Kurt che ha plasmato quel corpo ma soprattutto la mente di Mona, e la voce di Mona con spasmi, lamenti, respiri trattati per ogni occasione. Quella di Corpo è un’odissea intesa come il tentativo di ricongiungersi alla parte umana di lei, in seguito a una rottura identitaria dovuta alla costruzione della scultura, della statua perfetta.”

E ancora: “I riferimenti al mito, al mondo classico sono molto presenti nel film. Il regno di Mona è la palestra, un palazzo storico, un luogo dell’antichità: Temple Gym. Quella di Corpo è un’odissea intesa come il tentativo di ricongiungersi alla parte umana di lei, in seguito a una rottura identitaria dovuta alla costruzione della scultura, della statua perfetta. Vorrei precisare è che la voce di corpo non è lì per tenere alta l’attenzione in un film senza storia. Bene che sia anche questo, ma la storia scarna, quasi inesistente non la sento come un problema da risolvere, e non penso sia una specifica dei film sul corpo. Bo adotta meccanismi narrativi più contemporanei… Sentivo che non si trattava di un film caldo, dall’intreccio complesso e con una drammaturgia forte, perché quello di Mona è un corpo assoluto, sacro, Mona è una monade e BO doveva essere è un film monolitico. Difficile incarnare quel corpo, impossibile empatizzare con lei, semmai si possono comprendere le sue scelte, i suoi desideri senza condannarla. Il principio mi guidava era quello dell’immersione nella mente e nel corpo di lei che adottiamo come filtro visivo e sonoro. La storia è essenziale perché volevo lasciare allo spettatore uno spazio in cui costruire il film sulla propria fisicità”.

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Il film è dello spettatore, non del regista. BO è un film sensoriale, percettivo che sperimenta un’armonia di frequenze, composizione, luce, buio, ritmo, perché anche nel corpo dello spettatore deve accadere qualcosa di chimico durante la visione, una mutazione, una crescita. Body Odyssey è un’opera d’eccezione, quindi eccezionale. Tra Cronenberg (padre ma anche figlio con l’umor liquido di Infinity Pool) e Milius, con intermezzi di puro e rumoristico nero glazeriano, la regista percorre la pelle e l’anima di un’atleta formidabile. Un corpo totale, che si estroflette e si inturgida come superficie di vulcano, che anela e spasima e desidera e sogna. Una Bella Baxter postatomica, Julian Sands il suo Kurt/Godwin, che trova la sua consacrazione in un metaverso steroideo. Le forme sono stravolte e stravolgono, le palestre sfumano in dark room e club priveé, la natura lacustre assurge a luogo sacro che fa scaturire una tale deità panica. È un film nero e rossissimo, è un film punk, è il film che da tempo cercavamo.