Cesare Canevari: o del cinema a Milano
Cesare Canevari il genio del cinema fatto all’ombra della madonnina. Stilista eccezionale. Tecnico formidabile. Artista eclettico. Un fuoriclasse...
Al termine dell’intervista che gli feci per gli extra del DVD di Una jena in cassaforte, nella sua bella casa a Rivolta D’Adda, Cesare Canevari mi disse: «È la mia ultima intervista».
Sapeva che era così e anche io. Eravamo nel settembre del 2011, in una di quelle giornate di vento che solo in Lombardia sanno essere così lucide e belle. Dopo di allora, sono tornato a trovarlo: tra la nostra redazione e casa sua, c’erano poco meno di una quindicina di chilometri. Fino ad aprile o maggio di quest’anno, l’ultima volta che l’ho visto. Mi aveva richiamato intorno a giugno, voleva che ci vedessimo per darmi una copia di Il romanzo di un giovane povero, che gli avevano spedito da Roma con altri suoi film. Per impegni ho dovuto rimandare. Da allora non l’avevo più sentito. A settembre avevo provato a chiamarlo ma sempre senza esito: mi era venuto l’improvviso impulso di scrivere un libro su di lui e volevo proporgli l’idea. Ma nello stesso tempo avevo la certezza che fosse ormai tardi. Avevo lasciato Cesare lucidissimo ma non più in grado di muoversi autonomamente anche per casa, se non reggendosi ad un girello. Sembrava un uccellino, con quei suoi magnifici capelli bianchi, finissimi, e un’espressione furba, da monello. Ma la tempra, la sua magnifica maniera di parlare, da vecchio milanese colto, al quale erano rimasti i tempi e le pause che gli aveva insegnato Ruggero Ruggeri, immagino, quando da giovane era stato in compagnia con lui, era sempre la stessa. Non lo avrei mai più rivisto. Cesare Canevari si è spento in un ricovero di Crema il 25 ottobre 2012, circondato dall’affetto dei suoi cari, i figli Stefania e Massimo, la sorella Mirella, il genero Paolo. Era nato a Milano, in Corso XXII Marzo, a Porta Vittoria, il 2 agosto del 1927…
GIUSTO!
A gennaio, Cesare era incazzato per Matalo! Si era messo in testa che gli spagnoli gli avessero mandato una copia del film in DVD rimontata e rimaneggiata nelle parti con Corrado Pani: «Io potrei anche citarli. Me l’hanno dato così, come tu lo vedi, con tutta la parte di Corrado Pani accorciata, hanno tolto quasi tutto di lui. C’è l’inizio, quando lo liberano, e poi basta». Ma appunto, Cesare – gli dicevo – il film è così, Pani si vede solo all’inizio e alla fine. Niente, non era convinto. Anche a Venezia, nel 2007, durante la proiezione del film, quando Burt cade da cavallo durante l’assalto alla diligenza, Cesare aveva commentato a voce alta: «Ma come?! È già morto?!». E all’apparizione di Diana Sorel, la ragazza bionda, nel paese: «E questa chi è?!». Matalo! è un valore cinematografico assoluto. Riesce a far sembrare banale persino Sergio Leone. Eduardo Manzanos Brochero, il coproduttore spagnolo, si era complimentato: «È il film più bello che io abbia mai fatto: mi scrisse proprio così in un telegramma che dovrei avere ancora in giro da qualche parte. Ma tu lo sai – mi diceva Cesare – che c’è stata una diatriba su Matalo!, perché la sceneggiatura era già stata girata e questi vigliacchi di Roma me l’hanno venduta ugualmente? E il produttore del primo film (Zeliko Kunkera, ndr), ha aspettato che io finissi di girare, per farmi causa». La sceneggiatura di Mino Roli con cui i romani avevano “solato” Cesare, era quella di Dio non paga il sabato. «L’hai visto? Ce l’ho, io. Te lo faccio vedere: è una cosa pietosa… Vabbè… Tu pensa che in Cineriz – allora c’era Sciscione come direttore generale, amico mio tra l’altro –, finita la proiezione di Matalo!, mi hanno guardato in faccia e mi hanno detto: “Ma questo non è un western!”; “Sciscione – dico – scherzi o che cosa?”; “No, è fuori dai canoni!”; “Appunto…”. Dopo ha avuto un successo enorme, però non ci credevano».
Cesare era stato amico di Sergio Leone e più di una volta mi disse di avere revisionato la sceneggiatura del Buono, il brutto e il cattivo – nell’ambiente, del resto, questa è cosa saputa. Pare comunque incredibile che Canevari, stilista sommo, fosse partito da un altro western come Per un dollaro a Tucson si muore, un allucinante esordio girato in Jugoslavia, nel 1964. «Il dramma del primo film è che era piatto, perché mi sono fidato del mio direttore delle luci, ClaudioCatozzo. Io sono capitato alla regia perché mancava Oscar De Fina – che è morto anche lui, lo sapevi?… Siccome la moglie di De Fina era un temperamento molto geloso, non gli ha permesso di venire in Jugoslavia a fare il film. E io mi sono trovato là con la troupe e compagnia bella. Il mio socio di allora, Colombo, mi ha detto: “Senti, datti da fare! Dirigilo tu, perché De Fina non viene!”; eh la Madonna…. Così, ho preso il mio direttore delle luci di allora, Catozzo il quale, da buon figlio di …, per essere più sicuro, per non sbagliare, ha fatto tutto il film con un solo obiettivo, il “32”, che è il più facile di tutti, per le luci, per le riprese. Io vado in proiezione e vedo che è tutto piatto: non ci sono salti, non ci sono primi piani… Ma la colpa era mia, perché non ero preparato a fare un film come regista. E allora mi sono messo a studiare…». Su questo, gli facevo sempre raccontare un aneddoto meraviglioso che messo per iscritto non rende però come era ascoltarlo dalla sua voce, con la sua inflessione e le sue pause. Dopo Tucson, dopo avere studiato la tecnica, Cesare va con un amico a vedere la prima di un film. Davanti a loro, nel cinema, siede Lamberto Caimi, grande direttore della fotografia milanese: «Come comincia la proiezione, il mio amico mi chiede: “Che obiettivo hanno usato qui?”; E io; “Un 28”. Caimi si volta e dice: “Giusto!”. “E qui, che obiettivo hanno usato?”; “Questo è un 32”; e Caimi: “Giusto!”». Era diventato un esperto. E nel suo film successivo, Una jena in cassaforte, Cesare si sarebbe scatenato…
LA PIUMA
Alla fine di settembre del 2010, Cesare era stato invitato a Varese per una manifestazione dedicata alla Jena in cassaforte, organizzata da Ninì Della Misericordia, nipote del produttore del film, e contestualizzata nella bellissima villa varesina – villa Mocchetti allora, oggi villa Toeplitz – in cui la Jena fu girato. Chi voglia, troverà i dettagli nel DVD Cinekult del film, che ha finalmente restituito al suo splendore un oggetto prezioso: un noir lombardo con atmosfere all’inglese e uno stile alla francese. «L’ho scritto tutto io, ma che ne so da dove mi fosse venuta l’idea di questa storia. L’avevo scritto d’istinto, non ho seguito niente e nessuno». Della Jena a Cesare piacevano molte cose: tanto per cominciare una delle protagoniste, Marie Louise Greisberger, la padrona di casa che va in giro adorna di acconciature e abiti fantastici: «Che donna, che classe…!». Ma una volta non mi aveva detto che era stronza? «No, la stronza lì era Cristina Gajoni; una pizza, da morire: non voleva fare questo, non voleva fare quell’altro. La Greisberger era docile ed era molto bella… naturalmente truccata, perché se tu la vedevi la mattina quando arrivava… Avevo una truccatrice clamorosa, io, in questo film qui. Che poi mi ha seguito anche in altri».
Più di una volta Cesare espresse il rimpianto di non aver calcato il pedale sulle situazioni erotiche tra donne: «La storia si prestava ma non so perché, non mi è venuto in mente o non ho avuto il coraggio. Sì, c’è soltanto un accenno quando le altre due spogliano a forza la Gajoni, ma potevo fare di più. Le attrici ci sarebbero state e poi, devo dire la verità, io sono sempre riuscito a far fare ai miei interpreti quello che volevo». Sulla Jena, il pezzo forte era l’aneddoto della piuma: «Avevo un organizzatore, che si chiamava Palumbo, una persona d’oro, il quale alla mia richiesta di avere a disposizione una villa trovò questo bellissimo posto a Varese e mi presentò Mocchetti, il proprietario, e la moglie, che erano deliziosi. La signora Mocchetti mi disse: “Lei può andare dove vuole nella villa, ma in questa camera – che era la loro camera da letto, matrimoniale – la prego, non entri”. Va bene. La prima cosa che ho fatto, siamo entrati. Non solo: ma siamo entrati a girare il giorno in cui lei, la signora Mocchetti, aveva telefonato: “Vengo a vedere cosa state facendo…”. La madonna! Allora, a ripulire tutto, tirare via le luci, tutto, tutto, tutto. Abbiamo dimenticato solo una piuma del boa che portava la Greisberger; l’unica cosa dimenticata, non l’ha mica trovata? L’ha guardata, ma mai più è andata a pensare che l’avessimo lasciata noi…. I Mocchetti sono stati squisiti ma credo che non abbiano preso nemmeno una lira per averci dato la loro villa. Credo…». La stanza si vede benissimo nel film, è quella della Greisberger.
ALLA FRANCESE
Gli avevo portato il DVD della Jena in cassaforte, e stavamo discutendo delle arditezze tecniche e dello sperimentalismo di cui Cesare aveva fatto mostra. Sua figlia Stefania, presente, era intervenuta domandandosi se il film non fosse lento. «Lento?! Non è lento. Ha una modalità di racconto particolare. Io ho sempre girato “alla francese”. Questi film che vedo oggi non mi dicono nulla, ma nulla, ma nulla. E poi, devi capire la storia. Nei film di adesso non capisci la storia, almeno io faccio fatica a capirla». Ripenso ora alla Jena, a quella soggettiva del carrello con sopra le sigarette drogate che Zanin (il commercialista di Cesare che fece spesso ruoli nei suoi film) spinge verso Pizzochero; o alla stanza che vortica intorno alla Greisberger: gli avevo detto che erano grandi idee: «Erano tutte idee mie, di regia, perché avevo degli aiuti ma… ecco, in quel film mi pare che ci fosse sempre Pizzochero a farmi da aiuto, che però, poverino, dormiva. Sai cos’è sbagliato lì? Le luci, che non davano l’atmosfera: Catozzo, ottimo direttore della fotografia ma abituato alla pubblicità, uniformava tutto, non c’erano i chiari e gli scuri…».
Fu in quell’occasione che gli chiesi se avesse mai avuto un progetto irrealizzato al quale tenesse in modo particolare: «Sì, un film con due produttori romani dei quali non ricordo più i nomi: mi avevano detto di fare una sceneggiatura, che io ho scritto, col titolo Non dire mai. Era tratta da un romanzo americano. Poi avevo un’altra sceneggiatura alla quale tenevo molto, che ho trattato a lungo con un produttore romano, che mi diceva sì sì, ma poi alla fine… Ecco perché io odio i romani. In quel periodo, c’era in Italia un grande sceneggiatore spagnolo, al quale avevo fatto leggere il copione e mi aveva detto che era ottimo. Sarebbe stato il primo film a trattare dell’amore… ma non era un amore vero e proprio, non sono mai andati a letto… tra uomo e uomo. Il direttore di una ditta, importante, e un ragazzo molto più giovane. Raccontavo i primi approcci. Pensa che il produttore con il quale ero in trattativa per questo film, era stato l’agente di Gisèle François. E si era incazzato da morire: non perché a lui piacesse Gisèle, ma perché diceva: “Adesso questa qui sta con te e non lavora più con gli altri”…».
Dalle fotografie che ho visto, gli dico, la François mi sembra fosse molto bella: «Non era bellissima. Sì, era bella, ma non era di quelle bellezza che tu vedi adesso. Pensa che dopo due anni con me, s’è sposata, con un americano della Nato. A Parigi l’ho incontrata di nuovo dopo diversi anni… perché, ogni tanto, con Righini andavamo a Parigi a vedere dei film, quando avevamo la distribuzione, e Gisèle si lamentava perché non… L’americano non faceva il dovere di marito». La distribuzione che Cesare aveva con Righini negli anni Sessanta si chiamava CCE, Compagnia cinematografica europea e importò numerosi film dalla Francia.
IO, CESARE
«Qual è il tuo film più bello, Cesare?»; «Io, Emmanuelle»; «Sì? Sei sempre di quell’idea lì?»; «Io, Emmanuelle… Te l’ho raccontato che quando c’è stata la proiezione in Cineriz, la Erika Blanc era venuta con suo marito che allora faceva anche lui il regista, Bruno Gaburro… Erano davanti a me e alla fine, lui fa alla moglie: “Tu adesso, dopo un film così, filmetti basta!”. La Blanc era un animale da cinema incredibile, aveva un istinto…. Una volta o due ha provato a presentarsi sul set con i cerotti sui seni ma l’ho rimessa subito in riga. Ah, ma che attrice!». Cesare raccontava che Mario Cecchi Gori fece parte della commissione censura che aveva bocciato in prima istanza Io, Emmanuelle. Era l’unico che avesse votato a favore.«Fuori dal palazzo della censura, io ero lì che mi disperavo perché mi avevano respinto il film, si ferma vicino a me una macchina: era Cecchi Gori: “Canevari, questi non hanno capito un cazzo. Hai fatto un grande film. Vieni a trovarmi in ufficio, uno di questi giorni, ti aspetto…”. Ma io non ci sono mai andato, perché a me Roma mi stava qui…». Silenzio.
Poi Cesare riprende: «Eh, bei ricordi. Ma cosa vuoi… veramente si vive di ricordi. Quando io sono qui solo, perché mia figlia va fuori con le bambine, che cosa faccio? Penso. Penso. Penso al cinema e a mia moglie, che è stata la mia prima vita». La moglie, Fernanda, era scomparsa da qualche mese. «Sette anni di fidanzamento e quarantasette di matrimonio. Mai stato così bene. Il torto che ho avuto con questa donna – ecco i pensieri che faccio quando sono solo – è di averla lasciata sola quando andavo a Roma. Una volta al mese, almeno una settimana, andavo a Roma. E questo mi disturba molto, ripensandoci adesso». Sono le ultime parole di Cesare che ho registrato.