Claudio Del Falco: The Action Man

Intervista al protagonista del nuovo film di Claudio Fragasso Karate Man
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Claudio Del Falco è l’unico interprete davvero “fisico” che abbiamo oggi nel cinema italiano. E sarà protagonista di Karate Man, il film di Claudio Fragasso che, Covid permettendo, dovremmo riuscire a vedere entro la fine dell’anno. Un  action italiano è un evento. Come lo è il ritorno dietro la mdp di Fragasso. Del Falco è stato il motore di questa operazione, perché Karate Man è lui e la storia del film è la sua storia.  Pulici ci ha fatto quattro chiacchiere, che si sono trasformate in un interessantissimo trattato su come si girano i film d’azione...

Nasco in una famiglia di “artisti”, mia madre, Olimpia Cavalli, era un’attrice, ha fatto tanti film con Totò. E mio padre era nipote di Jovinelli, il fondatore del famoso teatro Ambra-Jovinelli. Papà e mamma si sono conosciuti nel teatro, quando lei era la soubrette di Macario, il grande comico. Tanto per dirti, Fellini era di casa da noi. Mamma doveva fare La dolce vita al posto di Anita Eckberg, fece proprio il provino. Con Fellini ha lavorato poco, ma lui era innamorato di mia madre, che lo frequentava anche al di fuori del cinema. Immagina, essendo papà un Jovinelli, tutti lo frequentavano: Franco e Ciccio erano proprio amici di famiglia, Tino Buazzelli, Walter Chiari… ho conosciuto persone che hanno veramente fatto la storia del teatro e del cinema italiano. Quindi, essendo in questo ambiente, già da piccolo ho cominciato a inserirmi. Mio padre non voleva tanto che facessi l’attore… Papà era un costruttore importante. Mamma, al contrario, viveva per lo spettacolo, ne era affascinata. Quindi io, per accontentare un po’ tutti e due, ho continuato l’attività di mio padre, che è venuto a mancare quando ero giovane ancora, avevo vent’anni. E mia madre l’ho accontentata facendo dei film. Tra le primissime cose, ci fu Snack Bar Budapest di Tinto Brass, con Giancarlo Gianni… Ma ero piccolo, avevo sedici o diciassette anni…

Prima, però, avevi fatto Il frullo del passero di Mingozzi…

Considera che ho fatto tantissimi film, a livello di comparsate. Nel film con la Muti e Noiret facevo Adamo. Ma anche lì ero proprio piccolo piccolo. Poi feci anche una serie televisiva per Raiuno, È proibito ballare, di Pupi Avati, che passò in prima serata. E, nel 1991, Ultras di Ricky Tognazzi, dove facevo il capo dei Drughi juventini…

Il primo ruolo di peso fu in Tradito a morte, di Emanuele Glisenti… 

Certo, nel 1995. Volevamo fare con Minerva Pictures, con il produttore Ermanno Curti, papà di Gianluca… io sono molto amico di famiglia, anche perché la mamma di Gianluca era un’attrice (Leonora Ruffo, ndr) ed era molto amica di mia madre… All’epoca io ero già campione europeo di kickboxing e quindi Ermanno e Gianluca mi dissero: «Perché non ci inventiamo una storia su questo?». Così facemmo questo Tradito a morte, che era un film di genere, girato da Emanuele Glisenti, un po’ così… senza troppi soldi, ma che al Mifed di quell’anno venne venduto in 150 Paesi: è uscito pure in Albania, in Medio Oriente…

Mi ricordo che si vedeva dappertutto la videocassetta italiana del film…

Sì, uscì come Number One, Columbia Pictures, per un certo D’Anna, che stava allora sulla Flaminia. E pensa che allora uscì in Italia con un cappellino o qualcosa del genere come gadget. Questo è stato il mio primo film da protagonista, nel 1995.

E intanto continuavi l’attività di tuo padre, mi dicevi…

Sì. Gestivo qullo che lui aveva lasciato quando morì. Adesso ho il centro sportivo più grande d’Italia, che ho costruito io sul terreno che era di mio padre e, prima ancora, di mio nonno. Sta a Villa Dei Quintili, nel parco dell’Appia antica.

Nel 1995 eri quindi già un campione di kickboxing?

Nel 1992 ero diventato campione europeo WKF. Tutto era cominciato da quando avevo 16 anni, perché allora ho scoperto di avere il diabete giovanile. Mio pare era un italo-americano, più americano che italiano. Negli anni Sessanta aveva costruito un intero quartiere in Venezuela, che si chiama El Marques, un quartiere molto importante dove aveva anche delle rivendite di prodotti italiani in esclusiva, per cui gli italiani che stavano in Venenzuela andavano a comperare da lui. Mio padre aveva il mito dello sport e sosteneva che il diabete era uno status. Io ho seguito sempre i suoi consigli, anche contro il parere dei dottori che mi vietavano di fare sport da combattimento: allora erano vietati ai diabetici, come l’automobilismo del resto… Beh, io ho fatto tutto il contrario… che ne so? Era vietato il motocross? E io lo facevo. Tutto questo ha fatto sì che io mi mettessi alla prova già da tredici, quattordici anni e così ho forgiato questo corpo, questo fisico che mi ha permesso poi ancora oggi, che sono grande, di godere della sua funzionalità. La funzionalità del proprio fisico è essenziale. L’età non esiste. L’età è quella che uno dimostra, non quella che uno ha realmente. L’abbiamo inventata noi la carta d’identità, gli antichi romani mica ce l’avevano. Quindi, uno era quello che dimostrava di essere. Uno poteva essere gladiatore a quarant’anni… a parte il fatto che forse allora pochi ci arrivavano a quarant’anni (ride), ma comunque… lì non esisteva l’età anagrafica, esisteva l’età biologica. Così, per impulso di mio padre, ho cominciato a fare palestra, nel 1984 mi aprì una palestra che ancora ho a Roma, all’Eur, che si chiama Poggio ameno. Ho avuto un maestro, Agostino Moroni, che all’epoca faceva full contact, american karate. E ho cominciato così. Poi nel 1990 esplose il fenomeno Van Damme. E fu per questo che Curti pensò di fare Tradito a morte. Il problema è che fu scritto male, forse perché ancora non si credeva al genere action-sport, per cui vennero inseriti dei pezzi di combattimento che però erano pochi rispetto a quanti ne avrebbero dovuti mettere. Io ero piccolo quindi nemmeno potevo più di tanto dare dei consigli. Ermanno Curti era un uomo vissuto e quindi io ho fatto quello che lui mi ha detto. Comunque, questo filmetto all’epoca fece parlare. Dopodiché mi sono dedicato ai miei centri sportivi e ho ricominciato in maniera più intensa col cinema nel 2010…

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Del Falco sul podio

Ti sei gemellato in qualche modo con Stefano Calvagna, hai fatto tre film con lui…

Sì, il primo è stato Rabbia in pugno, distribuito dalla Minerva Pictures, anche in Giappone, in Cina, con Maurizio Mattioli in una veste inedita da cattivo, da mafioso…

Ma Calvagna non ha girato anche un film autobiografico in cui ci sei tu…?

Sì, quello è Cronaca di un assurdo normale. Stefano ha un carattere forte, deciso, è un “duro” e ha le idee molto chiare, quindi è stato stimolante lavorare con lui. Rabbia in pugno l’abbiamo coprodotto e l’ho avuto io come distribuzione. Sta su Amazon Prime Video adesso e Gianluca Curti lo aveva messo in dvd già dal 2012 o 2013. Poi con Ferrero, il fratello del “Viperetta”, ho girato un altro film, MMA Love never dies, che ha prodotto la Adler Entertainment con un bel cast, perché lì c’era anche Tomas Arana che faceva il capo dei cattivi, c’era Luca Lionello… Come campioni, ci siamo io e Michele Verginelli, famosissimo, campione di MMA, avrà fatto duecento incontri. La MMA è quella disciplina senza regole, Mixed Martial Arts. Nel film c’era anche Roberta Gianrusso che faceva la poliziotta mia fidanzata.

Con Calvagna hai fatto anche un terzo film, Non escludo il ritorno, su Califano…

Lì ho un cammeo, perché Franco era un amico mio, è venuto spesso e volentieri anche a casa mia… eravamo proprio amici. E quando ho saputo che Calvagna stava girando questo film, gli ho chiesto di farmi fare una parte. Ho interpretato il ruolo di un amico di Califan,o che si chiamava pure lui Califano, un pugile. Ricordo che Franco mi raccontava di quando andava a vedere i match di questo Califano, che gli regalò un paio di guantoni durante un concerto. C’è una scena molto bella che ricostruisce questo episodio nel film di Calvagna, solo che io gli regalo un paio di guantoni da kick boxer.

Dopo MMA Love never dies, dunque, parte questo nuovo progetto con Claudio Fragasso, Karate Man

Fragasso lo conosco da una vita, ma lui non mi ha mai preso a fare i suoi film, all’epoca ho fatto vari provini con lui, ma non ci siamo mai trovati in sintonia…

Strano, perché tu sei uno dei pochissimi attori che possono fare cose action in Italia…

Eh chi lo sa… Forse non gli davo fiducia, non so… Tant’è che adesso gli ho fatto fare un video su Instagram per fare pubblica ammenda ufficiale del fatto che non mi avesse mai preso (ride). Claudio non aveva mai fatto un film sulle arti marziali anche se ne avevamo già parlato una volta in cui ci incontrammo da Iervolino, il produttore, mentre lui stava preparando quel film comico, Operazione vacanze, che purtroppo non è andato molto bene. Stava da un po’ fermo, Claudio, e io tramite il produttore Alberto de Venezia l’ho fatto contattare per questo Karate Man. E abbiamo cominciato. Rossella Drudi, la moglie di Claudio, mi ha intervistato e da lì è stata fatta la sceneggiatura…

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Del Falco e Stefano Maniscalco

Perché Karate Man è, in fin dei conti, la tua storia…

Sì, diciamo che è la mia storia, cinematografata, sceneggiata. Un campione di karate ha il diabete ma non lo dice a nessuno. Durante una gara, una finale mondiale, ha un problema cardiaco che porta a conoscenza di tutti questo suo stato di salute. Tramite la sua fisioterapista che poi diventerà anche la sua donna, uscirà da questa situazione a andrà a difendere il titolo. È un film che vorremmo trasmettesse ai giovani il messaggio che quando c’è un problema, questo va risolto, senza lamentarsi e senza trovare scuse. E che con l’impegno è possibile rimettere a posto le cose. Claudio sul set è stato molto bravo, mi sono trovato benissimo con lui e in generale si è venuto a creare un clima molto familiare. Questo ci tengo a dirlo, di avere avuto il piacere di lavorare con uno dei maestri del cinema di genere italiano. L’ “ultimo samurai”, lo chiamo io.

Senti, al di là dell’importanza del tema e del messaggio, nel film ci sarà molta azione, immagino…

Moltissima. E per la prima volta si fa il karate olimpico, per la prima volta nella storia del cinema in assoluto. Abbiamo fatto una ricerca ed è emerso che non è mai stato girato un film dove c’è il karate olimpico. Non il karate inventato dagli sceneggiatori o il karate, diciamo, cinematografico. Ma il karate come combattimento olimpico, kumite si chiama. Sai che sarà una disciplina alle prossime Olimpiadi, quando le faranno… E noi abbiamo narrato di questo campione. Nel cast c’è Stefano Maniscalco che è un’icona del karate italiano, capitano della nazionale italiana per tanti anni, fisicamente perfetto, molto allenato, molto muscoloso e quindi era giusto per questo tipo di film. Io l’ho proposto a Fragasso che ha sposato l’idea subito e Rossella ha scritto la sceneggiatura pensando proprio a Stefano Maniscalco, che è stato un maestro, un esempio da seguire per tutti i giovani. Perché questo film è destinato ai ragazzi giovani, anche ai bambini di sei, sette anni, che sono poi quelli che praticano il karate nelle palestre.

A che punto siete con il film?

Siamo agli effetti speciali, che per fine agosto saranno finiti. A settembre ottobre faranno la color, i rumori e il film è finito.

Film del genere se ne fanno pohissimi, anzi quasi nessuno in Italia. Credi sia una questione di costi o mancano proprio gli interpreti?

Bravo, hai detto bene: il problema è trovare attori in grado di realizzare questi film. Che non è facile. Io poi di fatto non sono un attore, sono un campione. Sono un campione che si è adattato anche come interprete. Ma vengo da una scuola di recitazione, ho fatto la gavetta, ho fatto il doppiatore per tanto tempo. Sono, diciamo, una via di mezzo. Che è poi quello che fanno in America. In America prendono i campioni e li fanno diventare attori. In Italia prendono gli attori e li vorrebbero far diventare campioni, ma non è possibile. Perché è più difficile diventare campione che diventare attore. E quindi questi film non si possono fare per il semplice fatto che la maggior parte dei campioni non sono in grado di interpretare un ruolo da protagonista. Nel caso di Maniscalco, lui è stato molto bravo perché è stato subito capace di stare davanti alla macchina da presa. L’ha dimostrato con i fatti. Pensa che tutte le scene action le abbiamo fatte “buona la prima!”. Quando c’è da fare a pugni, a cazzotti, se due campioni combattono affiatati, non sbagliano. Era la troupe che sbagliava, noi non sbagliavamo. Erano i macchinisti, gli operatori che sbagliavano. Perché esiste pure questo problema in Italia: non essendoci troupe preparate, finisce… che ne so… che si riprendono tra di loro, inciampano. Noi facciamo i salti mortali, le cose, dobbiamo atterrare in quel punto e lo facciamo; loro sbagliano a tenere la macchina da presa e poi magari non inquadrano bene il dettaglio. C’è questo problema delle inquadrature: non sanno inquadrare, quindi anche i registi fanno fatica. Claudio è stato molto bravo, però tendono tutti a stringere. Perché? Perché gli attori non sono capaci. Quindi, quando c’è qualcuno che tira un cazzotto, fanno vedere solo il pugno, così lo fanno tirare allo stuntman. Ma quando hai un campione davanti alla macchina da presa, lo devi girare largo. Più lo giri largo, più la scena è bella, perché vedi il gesto atletico, lo sguardo, il movimento. Poi, se vuoi stringere, lo stringi al montaggio, perché giri in 4K, quindi puoi poi stringere al montaggio come vuoi. Purtroppo, invece, girano tutti i primi piani che poi buttano, perché non servono. Ripeto: se hai due campioni davanti, devi stare largo. E questo è stato un po’ il problema delle prime settimane di lavorazione del film. Apposta io cerco sempre di non cambiare la troupe, perché poi ogni volta siamo da capo a dodici a dover rispiegare tutto. Qui c’era come direttore della fotografia Dario Germani, per fortuna, che ormai con me è affiatatissimo, perché abbiamo fatto tre o quattro film insieme. E già dopo il primo film ha capito come si deve fare…

Mi stai spiegando un aspetto tecnico molto interessante, che pochi considerano: la capacità di inquadrare come si deve una scena d’azione…

È difficilissimo. Difficilissimo. Perché tu puoi avere anche Jason Statham davanti, ma se lo inquadri male, diventa un fessacchiotto. La differenza tra Statham e noi, è che quello ha una troupe dietro con le palle, che lo inquadra bene e che poi al montaggio leva i frames… che ne so: sono 20 frames? Fanno uno sì e uno no e quindi il colpo sembra più veloce. Qui montano ancora come nel 1995, non sanno che vuol dire accelerare, aggiungere, levare. Noi siamo dei pionieri. E in questo Fragasso ha dimostrato di essere molto perspicace, infatti ci ha lasciato un po’ di carta bianca durante il montaggio, ci ha chiamato per vedere, giudicare. Perché un montatore non è in grado di vedere se una tecnica è fatta bene o è fatta male, a meno che  non faccia arti arziali, ma in Italia non ci sono montatori del genere.

Vedo che hai una preparazione notevole, da questo punto di vista…

Eh, infatti sul set io aiuto un po’ tutti, cerco di dare a tutti quanti la sicurezza di quello che devono fare. E cerco di lavorare sempre con le stesse persone che ormai conoscono i trucchi del mestiere. Ma anche la fisicità, che in Italia non è interpretata, purtroppo… In America, la fisicità, la presenza scenica, è il 90% del film d’azione, vedi Stallone, Schwarzenegger… In Italia la fisicità di un attore non viene proprio interpretata: tutti in giacca, cravatta, con la camicetta… Cioè, il corpo recita più della parola e questa cosa negli Stati Uniti sono decenni che è stata scoperta e sfruttata in maniera economica. Schwarzenegger in Terminator dice tre battute in tutto il film: mi ricordo che su Ciak uscì un articolo dove qualcuno scriveva che aveva guadagnato dieci milioni a battuta. Queste cose in Italia non le dice nessuno perché nessuno è in grado di dirle. Per questo spero che Karate Man abbia successo, così io avrò il giusto peso per poterle trasmettere, queste cose.

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Claudio Del Falco: il gesto atletico

Tra i tuoi progetti c’è anche un Fight4 Life: di cosa si tratta?

Claudio Bucci, il produttore, vuole fare questo film. Siamo in pre-production. La sceneggiatura è pronta, stiamo già organizzando tutto e speriamo di partire tra settembre e ottobre. Dopodiché, c’è l’intenzione da parte di Bucci, che è il mio produttore in questo momento, di realizzare una serie di film tipo Bruce Lee, per dimostrare che anche in Italia si possono fare  film di genere, pensando non solo a una distribuzione interna ma pensando al mondo: perché se tu fai uscire un film in Italia e va male, tu hai buttato i soldi. Tu devi invece pensare che questo film può andare male in Italia ma in Cina o a Taiwan magari funziona…

Era la filosofia che imperava nel periodo d’oro del cinema di genere di una volta. Negli anni Ottanta era esattamente così. Gli action si facevano con l’occhio al mercato internazionale…

Diciamo che sarebbe bello e auspicabile tornare a quel periodo… Anche perché la commedia ormai interessa poco o niente. Sì, te la passano dappertutto ma gratis, però non interessa a nessuno, anche perché le storie sono sempre quelle. Forse il pubblico vorrebbe vedere un po’ più di abilità: l’attore che non solo dimostra di saper recitare ma anche di saper fare qualcosa di più. E magari, se lo sa fare lui senza bisogno di ricorrere agli stuntmen, ancora meglio…