Crimson Peak, il gotico secondo Guillermo del Toro
Il regista messicano torna alle atmosphere horror delle case infestate
Strana storia, quella di Guillermo del Toro. Anzi, strane storie. Così strane, lunari e visionarie da scontrarsi spesse volte con le macchinazioni di un sistema produttivo che non ne comprende la genialità. La carriera dell’eccentrico regista messicano è infatti costellata da progetti incompiuti o miseramente falliti (vedasi la saga de Lo Hobbit). Con Crimson Peak invece no: l’obiettivo è stato raggiunto, il film s’è fatto, anche a fronte di un parziale coinvolgimento economico del regista che, pur di non sottomettersi ai famigerati tagli degli studios, ha finanziato di tasca propria alcuni pezzi d’arredamento.
L’idea di Crimson Peak era partita già nel lontano 2006, poco dopo l’uscita de Il labirinto del fauno, ma gira e rigira, il trattamento sembrava destinato alla medesima fine di The Witches (da Roal Dahl) o Alle montagne della follia, sulfureo progetto di ispirazione lovecraftiana ma abbandonato, così parrebbe, per le non poche similitudini con Prometheus. Ma finalmente ecco il tanto inatteso colpo di scena: galeotto fu il set di Pacific Rim, dove partì una proficua collaborazione con Thomas Tull e Jon Jashni della Legendary Pictures. I due papaveri chiesero al disilluso Guillermo di spedir loro qualcosa di cinematograficamente appetibile, e il disilluso Guillermo rispose con un triplice affondo di spada: Crimson Peak, un adattamento western de Il conte di Montecristo e il succitato Alle montagne della follia. Tull e Jashni si fecero però corrompere da questa storia di fantasmi dalle atmosfere decisamente burtoniane.
Come in ogni gothic romance che si rispetti, anche in Crimson Peak la protagonista è una mansione sperduta tra le nebbie della campagna inglese. Una grande ed elegante costruzione in stile vittoriano appartenente da generazioni all’aristocratica famiglia degli Sharpe. Fin qui niente di strano, almeno fino a quando la giovane Edith Cushing (Mia Wasikowska) non decide di sposare l’affascinante Sir Thomas Sharpe (Tom Hiddleston) condividendone l’avita dimora e quell’antipatica della sorella (Jessica Chastain, sul cui personaggio non trapelano altre indiscrezioni all’infuori della sua supposta malignità). Siamo nell’Ottocento, l’aria gelida dell’inverno spiffera dalle fessure, le porte cigolano e il vento mugola per la canna fumaria. Si tratta di spiriti, tenebrosi e cattivi, impalpabili entità delle tenebre che presto cominceranno a manifestare la propria inquietante presenza per questi immensi saloni dall’arredamento baroccheggiante. Il lavoro scenografico (affidato a Shane Vieau e Jeffrey A. Melvin) ricorda a tratti Non avere paura del buio (Don’t Be Afraid of the Dark, 2011): superfici di legno finemente intagliato, lampadari rococò che penzolano in soggiorni rivestiti di broccati e velluti preziosi, boiserie alle pareti e ammennicoli cesellati dai più fini artigiani. Quello di Del Toro è un approccio puramente concettuale al gotico, che scomoda la Hammer (non è un caso che il personaggio di Edith faccia Cushing di cognome) per trasfondersi in qualcosa di inconsapevolmente disneyano, in equilibrio precario tra ricercatezza stilistica e caduta nel pacchiano.
Certo il suo cinema è un grande incubo in cui convergono tutte le fantasie, le frenesie e i deliri scenografici del costruttore: questa grande magione è stata infatti ricreata in studio pezzo dopo pezzo, tre sontuosi piani assemblati manualmente fino al più piccolo dettaglio. Niente computer grafica, niente fondali verdi. Tutto è rigorosamente artigianale. Il modello è un technicolor di Mario Bava, l’estetica si ispira chiaramente a capisaldi del genere quali Gli invasati (The Haunting, 1963) di Robert Wise o Suspense (The Innocents, 1961) di Jack Clayton. Ed ecco che tra gli spettri errabondi ricompare il Javier Botet di La madre, mentre le lugubri musiche sono state affidate a un altro specialista del gotico: Fernando Velázquez di The Orphanage. Purtroppo di questo grande parco divertimenti non resta più nulla: al termine delle riprese, durate sessantotto giorni, lo studio ne ha decretato l’immediata demolizione per ragioni di spazio.