Delitti a confronto: Argento vs Martino

Lo strano vizio della signora Wardh e Quattro mosche di velluto grigio
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I fatti nella loro nudità e crudezza sono i seguenti. All’inizio del 1971 (prima proiezione pubblica il 15 gennaio, al cinema S. Pietro di Trento), nelle sale cinematografiche italiane esce Lo strano vizio della signora Wardh, un giallo di Sergio Martino con protagonista Edwige Fenech. Nel film è contenuta una scena che coinvolge Conchita Airoldi. Trattasi di un’efferata sequenza di omicidio all’arma bianca, ambientata nel parco viennese di Palmenhaus Schönbrunn, in cui la vittima, mentre cammina per quel luogo deserto, all’imbrunire, percepisce la presenza di una minaccia, si mette a correre, viene raggiunta dal killer e finita a colpi di rasoio. Nessuno è testimone di quanto accade, se non un vecchio spazzino che sta lavorando nei pressi e che accorre, trovando però solo il cadavere della poveretta. Tempo totale: meno di un minuto e mezzo, come è possibile constatare in questa clip.

Nel dicembre del 1971 (il 17 la prima proiezione pubblica, all’Empire di Roma), esce Quattro mosche di velluto grigio, di Dario Argento (che, pochi lo sanno, aveva cominciato a girarlo come Alphabetagamma, a nasconderne il contenuto, con il medesimo stornamento titolistico che avrebbe applicato in Profondo rosso e in Tenebre). Anche qui, a un certo punto della trama, assistiamo all’omicidio di una donna, (Marisa Fabbri, che nel film interpreta una domestica ricattatrice) dentro a un parco. Tale sequenza dura all’incirca il triplo rispetto a quella di Martino. Viene preparata, svolta e risolta da Argento con tempistiche volutamente dilatate e senza che venga mostrato nulla dell’esecuzione in sé. Anzi, c’è quella che in termini tecnico-retorici si definirebbe una reticenza, una aposiopesi. La donna muore nei pressi del muro che delimita il parco, mentre due fidanzatini, al di là di esso, ne odono le ultime parole e le grida estreme. E noi vediamo, viviamo, tutto quanto con i loro occhi. Della Fabbri agonizzante, sullo schermo, Argento lascia solo il dettaglio di una mano che scivola giù, grattando e spezzando le unghie sulla parete del muro.

La pressoché totalità degli esperti di giallo-thriller italiano anni Settanta, concorda nel ritenere che Argento dipenda da Martino. Non soltanto in ossequio al principio “dopo di ciò, quindi a causa di ciò”, viste le evidenti analogie tra le due sequenze, ma anche perché esisterebbe una testimonianza dirimente, secondo la quale la sequenza della Airoldi sarebbe stata proposta ad Argento come modello per una eventuale morte di Quattro mosche. E il suggeritore sarebbe stato Luigi Cozzi, deputato a cercare spunti, riferimenti e stimoli letterari e cinematografici da sottoporre ad Argento per il suo terzo giallo. La scena del parco di Quattro mosche, verrebbe quindi fuori dall’esempio dello Strano vizio, che era allora storia recentissima, e, parimenti, da una situazione molto simile descritta nel romanzo L’alibi nero di Cornell Woolrich, che sempre il fido Cozzi aveva passato ad Argento.

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Chi scrive non prende posizione su queste ipotesi derivative. Che, probabilmente vere, nel caso di Argento lasciano però il tempo che trovano. Basti constatare, banalmente, come alla tempesta di rasoiate di sangue che Martino scatena nella scena del suo film, Quattro mosche risponda puntando su una castità totale nelle efferatezze e giostrando invece il tutto sulle suggestioni elementali (il vento notturno che scuote le piante nel parco e, prima ancora, l’improvvisa scomparsa della luce a favore delle tenebre) e su una struttura a imbuto che conduce la vittima, anche fisicamente, a venire stretta in un passaggio obbligato tra le pareti di roccia soffocanti, oltre le quali la Fabbri giunge alla fine del suo percorso: in quel parco e sulla Terra.