DellaMorte DellAmore: al baratro finale
A maggior gloria di Michele Soavi
Per usare il termine di Michele Soavi, DellaMorte DellAmore era il “metaforone” del mondo dell’adolescenza, che è chiuso e baluardato da mura invalicabili, sia dall’interno sia da fuori. Il cimitero di Boffalora, appunto. Lavorarono da questo punto di partenza, spesero energie a che questo prorompesse dal film e toccasse le corde, oltre che dei fumettisti, dei ragazzini in fase di transito verso la maturità. Ma il film riesce altro. Come un esperimento di genetica, andato male per un verso ma benissimo per l’altro. DellaMorte DellAmore è tutto tranne che un film per adolescenti o sull’adolescenza. Perché la sperimentazione riuscisse, sarebbe toccato darlo in mano ad altri, uno shooter qualunque sarebbe andato bene. Ma era nelle mani di Soavi, che spostò il discorso da un’altra parte. Quale parte? Ecco il problema… Dentro DellaMorte si rinvengono tutte quelle cose che in una maniera o nell’altra arrivavano da Sclavi, che il suo romanzo lo aveva scritto su di sé, cioè su uno che ha fatto machine arrière dal mondo e che si è acquartierato tra le mura inespugnabili della propria esistenza. Uno che ha tradotto l’insegnamento classico del vivi appartato e si è separato dal resto. Uno, infine, al quale il fantastico o il sovraumano vanno bene solo per farne delle storielle, ma che, per carità, guarda all’esistere con la stessa fede nell’ultrarazionale propria del CICAP, organismo del quale è membro, peraltro.
L’altra parte era quella di Michele Soavi, che è un mondo diverso, a sé stante, in cui non è irragionevole o impossibile che un coniglio azzurro seduto su una sedia rossa peschi in un lago nero insieme alla Morte. Sclavi le sue cose le ha scritte. Soavi le sue cose le ha viste. La natura non può, proverbialmente, fare salti e salti non poteva fare la materia che costituiva il romanzo nella materia che costituì il film di DellaMorte DellAmore. Era la prima volta che Soavi si muoveva in libertà, fuori dai “gruppi di potere” grandi o piccoli: Argento o Joe D’Amato. Qui, non aveva nessuna forma di divinità superiore a osservarlo. Non si dice ingerire, ma solo e soltanto osservare, che è già comunque una forma di ingerenza. DellaMorte DellAmore è il primo film del tutto libero di Soavi. E lo fa libero e si vede. Certo, deve ridimensionare alcune cose, l’isola dei morti non la può ricostruire in scala grande tra le mura cimiteriali, come avrebbe voluto. Ma sono cosette. Sistema gli elementi del resto a son gré: Rupert Everett era quello dal quale avevano preso la faccia per Dylan Dog, ma chi è che vedendo Everett nel film pensa al fumetto? Perché è un’altra cosa, un altro personaggio.
Un film fuori dal tempo e dallo spazio. Due specificità che allontanano bruscamente DellaMorte DellAmore dall’horror italiano degli anni Ottanta avanzati e Novanta, quando si era fatto sensibile lo spirito della decadenza e della rovina funerea del genere. Argento in via di disfacimento, Fulci, dopo gli ultimi deboli fuochi di Zombi 3, perso dietro le sirene dei tv movie berlusconiani, che segnarono l’inizio della sua fine. Lamberto Bava spostato ormai verso la fiaba televisiva di Fantaghirò, di grande successo e lucrosa. Gli altri… non c’erano altri. Un panorama arido, secco, depresso come il lago d’Aral. Ma nei momenti di crisi, per reazione eguale e contraria, può nascere il meglio, anche al centro del deserto. Il 1994 fu l’anno di DellaMorte DellAmore. Soavi arrivava dalla Setta, uno dei suoi titoli migliori, nonostante le ingerenze di Argento. Il perfetto punto di sintesi tra horror e fantastico; il regno freddo dell’azzurro e dell’acciaio, tinte madri del suo immaginario. DellaMorte DellAmore fu, invece, un film nero. Nero e bianco.
Nel cimitero di Boffalora consacrato Resurrecturis, “a coloro che risorgeranno”, imminenza, intenzione e predestinazione, le tenebre attraversate dai cadaveri ambulanti che Francesco Dellamorte rispedisce con routinaria efficienza nelle loro tombe, sono nere come l’inchiostro. Sono Tenebre. Francesco è nel mondo di quelle ombre, parte di un universo morto ma più vivo del mondo dei vivi fuori dalle mura del camposanto, messe a baluardo e a difesa non si capisce più se contro chi, da dentro, potrebbe uscirne o contro chi, dal di fuori, potrebbe farvi irruzione. Una metafora del mondo dell’adolescenza, si dice, che è un perimetro inviolabile e la negazione di qualsivoglia osmosi. E accettiamo che quegli spazi dove agiscono Francesco e l’assistente siano luoghi dello spirito, regioni della mente, più che della realtà.
Ma il livello di unione/separazione del film dal genere, dai cascami, anzi, di un genere morto, sepolto e falsamente redivivo, può c’entrare anche nell’immagine di questo fortino dove qualcuno resiste contro la carica del Nulla. Soavi voleva ricostruire al centro del cimitero l’isola dei morti di Böcklin, un cuore scuro e misterioso pulsante ancora più dentro e in profondità nella “zona morta”. Un secondo grado di separazione dal reale. DellaMorte DellAmore fugge sempre più in là, si ritrae, condotto dal suo nocchiero, verso quel remoto approdo. Che è però l’unico approdo, ovunque ci si diriga. Quando alla fine Francesco deciderà di correre le strade del mondo, scoprirà semplicemente che il mondo non esiste, che le cose si arrestano sul baratro del Nulla, che assume adesso un’altra evidenza fisica: non è più un’isola rocciosa circondata dalle acque dello Stige, ma un tramonto soleggiato in cui, con splendida logica onirica, comincia a nevicare. E questo è soltanto Soavi, qui Sclavi e il suo romanzo proprio non c’entrano niente.
Come la fenomenologia degli zombi, che nel 1994 ancora non si era arricchita della legione di morti viventi che ci avrebbe invaso dopo il 2000. Rendere i cadaveri simili a legno secco, vegetalizzarli in maniera da farli apparire germoglianti di fiori di mandragora e scoppiettanti di polvere, se colpiti da un proiettile, è una di quelle idee che potevano venire solo a Soavi, regista-artista che legge il liber monstruorum medievale e sa come trasferire gli amanti di Magritte in un ossario putrescente di ossa e di fango. Alla fine di DellaMorte DellAmore si sentiva il vuoto: un baratro fuori, un baratro dentro. Avremmo voluto sapere, dopo il transfert che dà voce al muto Gnaghi e rende afasico Francesco, cosa ne sarebbe stato della strana coppia. Nella sceneggiatura originaria scritta da Gianni Romoli, il ritorno a Boffalora coincideva con la scoperta che un altro guardiano e un altro assistente erano subentrati ai due fuggiaschi…