Dellamorte Dellamore. Io e Lui
Il film di Michele Soavi torna in sala dal 14 ottobre. Una questione personale
A volte, forse sempre, con i film è una questione personale. Per questo mi permetto di rompere l’etichetta per parlare del ritorno al cinema di Dellamorte Dellamore, da lunedì 14 ottobre distribuito da CG Entertainment in collaborazione con Cat People (qui l’elenco delle sale). Il film di Michele Soavi è uscito il 25 marzo 1994, tratto dall’omonimo romanzo di Tiziano Sclavi che otto anni prima aveva fondato Dylan Dog, nell’intento di sfruttare il successo clamoroso del fumetto; del resto i fan dell’Old Boy andavano a vedere “il film di Dylan Dog”, fregandosene che il protagonista si chiamasse Francesco Dellamorte che peraltro era Rupert Everett, cioè colui che prestò le fattezze a Dylan nell’idea primaria di Sclavi… insomma un equivoco consapevole, legittimo.
Per noi noturniani è invece il canto del cigno del grande cinema di genere italiano, che chiude quella stagione d’oro, per tutti gli italiani è anche l’anno della discesa in campo di Berlusconi… Dal quel momento in poi, spaccatura feroce: vergognosamente ignorato nella stagione dei premi (solo un David per la scenografia capolavoro di Antonello Geleng), soffrendo del complesso di minorità rispetto all’horror dei decenni precedenti, Dellamorte si porta dietro il marchio di ultimo della stirpe, film esiziale – non a caso ambientato in un cimitero -, e diventa cult o scult, merda o sublime, viene incensata la poetica malinconia che sprigiona o insultato per i microfoni che entrano in campo.
Ma questa è storia, che per una volta non interessa. La questione è, appunto, personale. La mia relazione con Dellamorte Dellamore inizia nella seconda parte degli anni Novanta, visto che avevo dieci anni quando andò in sala e l’ho perso per ovvie ragioni; assaggiato per la prima volta in una VHS carbonara, intorno agli undici, ne rimasi subito ossessionato. Dellamorte/Dylan, gli zombi, l’ironia sclaviana, Gnaghi e Anna Falchi… Inutile dire che risvegliava timidamente il mio appetito erotico prepubere. La colonna sonora di Manuel De Sica, soprattutto quel ritornello, iniziò a perseguitarmi e ancora mi segue, visto che lo inserisco in qualsiasi playlist da viaggio. Ma c’è di più… A un certo punto delle scuole superiori, tra una canna e una versione di latino, scoprii un particolare con profondo sconcerto. Il padre di un mio compagno di classe aveva lavorato sul set di Soavi nell’unità di scenografia, e il figlio si vantava con me: “Abbiamo a casa le pale del cimitero e la carriola di Gnaghi!”. Non me le hai mostrate, naturalmente, se fosse davvero vero non l’ho mai saputo.
Poco dopo, ormai vent’anni fa, iniziai a scrivere i primi pezzi per una rivista di critica cinematografica, che allora prosperava sul web perché era una delle prime. Nel tabellino redazionale, come spesso usava, per tratteggiare il profilo del collaboratore venivano inseriti i suoi film preferiti: tra un Godard e un Lynch emanati dalla mia mente post-adolescenziale, non ebbi timore a inserire subito Dellamorte Dellamore. Me lo fecero passare, ma qualche tempo dopo il direttore dell’epoca mi chiese: “Ma davvero quello è uno dei tuoi film preferiti?”. Certo, risposi, non è uno dei più belli della storia del cinema (ma che cazzo vuol dire?), però è uno dei miei film del cuore. Bisogna saper distinguere…
La storia d’amore continua tuttora, senza vergogna. Qualche anno fa stavo chiacchierando di horror con una ragazza, la quale mi ha chiesto: “Qual è il film in cui c’è un motociclista che esce dalla tomba… Una specie di zombi… L’ho visto da bambina con mia madre ma non riesco a ricordare…”. Ho risposto bene, eravamo all’inizio di una relazione. Oggi che faccio il critico, dopo decenni di visioni, sedimentate e intrecciate tra loro, ogni tanto rivedo ancora Dellamorte: lo farò di nuovo domenica sera, per la prima volta dentro una sala cinematografica.
Dellamorte Dellamore: a kind of magic.