Donnie Darko compie vent’anni

Un'analisi approfondita del cult generazionale di Richard Kelly, che torna in sala il 3, 4 e 5 giugno
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Ci sono cose, non molte a dire il vero, che meritano certamente di essere ricordate. Ed è curioso notare come, al pari del kafkiano Bill Pulmman prigioniero delle lynchane Strade Perdute (1997), rievocando appunto quelle cose che fieramente tale merito ancora lo posseggono, ciascuno preferisca ricordarle a modo proprio. Sarà forse per questo che, nel corso di questi ventitré lunghi anni, ogni Xennials, Millenials o Zoomers che dir si voglia ha inevitabilmente cullato il proprio ricordo del fenomeno Donnie Darko con giudizi e sentimenti a dir poco contrastanti. Chi con nostalgico affetto. Chi con spocchiosa insofferenza. Ma i più con quella schizofrenica alternanza di sopra e sotto valutazione che solo un grande cult è in grado di generare. Ma non un cult qualsiasi, si badi bene, quanto piuttosto un cult generazionale che, a dirla tutta, è ben altra cosa. Un’opera incidentale più che accidentale; nata sotto parecchie cattive stelle piovute dal cinematografico iperuranio nel lontano 1997 e causa di un “incidente” decisamente più felice di quello attorno al quale la propria escheriana trama si sarebbe dipanata. Un casus belli la cui prorompente forza distruttiva, racchiusa nel Deus Ex Machina del motore di un Boeing 777, non può che sibillinamente eguagliare quella dei tutt’altro che accidentali eventi che, in quel maledetto 11 settembre 2001, avrebbero preventivamente e più che lecitamente rubato la scena al talentuoso Richard Kelly e all’uscita della sua criptica creatura di celluloide. Coincidenze? Forse sì. O, forse, anche no. Poiché, così come ci ricorda l’immortale Graham Greene nelle appena tredici impietose pagine dei suoi Destroyers, è proprio dalla distruzione che ha origine la scintilla del processo creativo. Questo, dunque, è Donnie Darko: un’opera quantistica, capace d’imboccare simultaneamente differenti percorsi di senso e d’interpretazione, pronta tuttavia a ramificarsi ulteriormente ad ogni rilettura e nuova visione. Esattamente come quelle multiversali scorribande temporali alle quali l’ormai ex enfant prodige di Newport scelse d’iniziarci ancor prima che il claudicante marveliano disegno avesse detonato il primo atomo del proprio fagocitante Big Bang; tentando – senza troppo successo a dire il vero – di replicare il filosofico miracolo con l’irriverente distopia di Shoutland Tales (2006) e del mathesoniano incubo di The Box (2009). Si perché, nonostante l’ingombrante spettro della tutt’altro che fantascienza di Stephen Hawking, Donnie Darko è in primis un’opera innegabilmente e profondamente filosofica; pervasa da uno strisciante e visionario nichilismo che proprio uno pseudobiblion come The Philosophy of Time Travel dell’altrettanto fittizia ex monacale astrofisica Roberta Sparrow è riuscito a tematizzare, attraverso quel liquido e serpentiforme fil rouge che lega la cogitatio alla speculatio. Un’opera innegabilmente figlia dei propri tempi bui ma capace, così come il suo crononautico protagonista, di guardare tanto al passato quanto al futuro; generando un vero e proprio effetto farfalla che si sarebbe ripercosso su gran parte del cinema a venire e che proprio nel The Butterfly Effect (2004) di Bress e Gruber avrebbe trovato, se non certo il proprio degno erede, quantomeno terreno fertile nel quale spargere il proprio fecondo seme. Il seme di un Universo Tangente ma al contempo divergente da quello infantilmente nostalgico di Stranger Things: ingabbiato nell’ipnotico nastro di Möbius di un 1988 la cui insindacabile data di scadenza pare fissata a quei 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi che, fan fact, coinciderebbero con il tempo speso dal buon Kelly per concepire e filmare questa sua labirintica eppur così emotiva Dark(o) tale.

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E in tutto questo, così come suggerito dal criptico messaggio di una lavagnetta da frigorifero, dovremmo chiederci: dov’è Donnie? Ma, forse, la domanda giusta è: chi è Donnie? Donald “Donnie” Darko: taciturno, allampanato e mentalmente disturbato giovane liceale il cui nome non può che evocare il mito di un qualche oscuro supereroe; divenuto autentico status symbol – assieme al proprio atteggiamento ribelle e ad un nutrito corollario di nevrosi ed irriverenti stoccate ad un ancora acerbo politcally correct – dello spleen esistenziale dell’intera disillusa generazione 2 e 3.0. Un intelligentissimo ragazzo (s)perduto fra quegli insidiosi labirinti della mente che tanto l’egualmente depresso Ryan Gosling di Stay (2005) quanto la paranoica Laura Dern del lynchano Inland Empire (2006) avrebbero in seguito percorso con egual coraggio e rassegnazione. Un autentico Ricevitore Vivente che, come il Beau di futura asteriana memoria, sotto la dura scorza di un cinico aplomb mostra anch’esso di covare una viscerale e fottutissima paura. Un Eletto, insomma: venuto al mondo con l’evidente unico scopo d’ingannare la celeberrima (Nonna) Morte ma tuttavia consapevole che, così come insegnatoci giusto un annetto addietro dalle mortifere premonizioni di Final Destination (2000), la Morte non è cosa che possa essere ingannata; men che meno da un lugubre pischello capace di schiaffarci dritta in faccia la durissima verità occultata dietro la rassicurante mitologia dei dolci Puffi. E sono per l’appunto le visioni di un futuribile presente alternativo – la cui schizofrenica o teologica natura non è dato carpire – che condurranno questo novello Orfeo a varcare più che mai letteralmente l’insidiosa superficie dello specchio, immergendosi nelle sinistre profondità di un parallelo Inferno di periferia. O, a ben guardare, forse anche di un perturbante Paese delle Meraviglie che, come una post-reaganiana Twin Peaks o un distopico microcosmo alternativo in odor di Velluto Blu (1986), pare abitato dai falsi sorrisi e dai mille segreti custoditi da Esseri Viventi Manipolati: psichiatri, professori, bulletti da strada, impiegati piccolo borghesi e guru motivazionali con parecchi scheletri celati nei costosi armadi delle loro altrettanto costose villette a schiera. Doppelgänger inconsapevoli di esserlo, i cui disastrati destini spaziotemporali – così come nel trasognato epilogo del kieślowskiano Film Blu (1993) – finiranno per ri-destarsi e ri-connettersi attraverso la suadente carezza di una lenta carrellata laterale cullata dalle melanconiche note del Gary Jules di Mad World.

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Ed è per l’appunto un Folle Mondo parallelo quello nel quale il Segnato Donnie si troverà a deambulare o, meglio ancora, a sonnambulare. Un preveggente onironauta sperduto fra le maglie e i loop dello spazio-tempo di un folle Matrix (1999) nel quale realtà e simulazione appaiono, se possibile, ancor più confuse; costringendolo a seguire il machiavellico sentiero tracciato da un’inquietante orecchiuto Morpheus che, qui più che mai, mostra di possedere tutti i connotati di un autentico Bianconiglio. Una grottesca entità demoniaca – o angelica, chi può dirlo? – dal curioso nome di Frank, allegoricamente incontrata fra le poltrone di un surreale cinema deserto durante la proiezione nientemeno che del raiminiano Evil Dead (1980), sotto il cui “stupido” costume da spaventoso coniglio antropomorfo ci cela nientemeno che uno “stupido” e altrettanto spaventevole costume da Morto Manipolato. Un agente del Caos, portatore di sventurati presagi come il leggendario Uomo Falena di The Mothman Prophecies (2002) o, tanto per restare in tema, del peloso veggente a quattro zampe protagonista de La Collina dei conigli di Richard Adams, la cui lettura – e conseguente fugace visione della traumatizzante versione animata del 1978 – causeranno all’indomito Donnie parecchi pensieri e profetici incubi. Sarà dunque proprio questo incubotico spirito guardiano a guidare, come un malevolo Virgilio, lo scostante Prescelto – e, forse, lo stesso regista – nella creativa opera di distruzione di un predestinato Universo Tangente e conseguente edificazione di un nuovo Universo Primario al grido di “me lo hanno fatto fare”; spingendo all’atto supremo di un cristologico sacrificio capace d’interconnettere un ancora giovane Jake Gyllenhaal alla sua futura ed egualmente vandalica catarsi di Demolition (2015). Cos’è, dunque, per noi oggi Donnie Darko? Un astruso thriller fantascientifico? Un dramma a tinte orrorifiche con più domande che risposte? Il filmico volo pindarico di un fu promettente cineasta desideroso di ben più che qualche misero warholiano minutino di gloria? Oppure, al netto di parafrasi e nostalgie giovanilistiche, semplicemente un miracoloso, maledetto e tutt’altro che datato unicumCa dépend ovviamente. E da cosa? Ma ovviamente dal ricordo che ciascuno di noi ancora ne conserva e che, con la nuova uscita cinematografica della tanto osannata Director’s Cut restaurata in 4K, ci darà nuovamente l’opportunità di far pace con i sentimenti e le variegate interpretazioni generati da un’opera tanto polarizzante quanto indubbiamente destinata ad imprimersi ancor più profondamente negli occhi, nella mente e nei cinefili cuori. Un sinistro e avvolgente viaggio di 130 minuti che, il 3, 4 e 5 giugno tornerà a risplendere in tutta la sua maestosa immaginifica potenza, proprio nel buio di quella sala da cui tutto ha avuto uroboricamente principio e fine. Se è pur vero infatti che, come la scaltra Nonna Morte ci ha insegnato, si finisce sempre e comunque per morir soli, quando un giorno il mondo finirà nulla dunque rimarrà di noi all’infuori dei ricordi. I nostri ricordi di Donnie Darko, ovviamente.