Elle: necessità antiborghese
Un'analisi approfondita dell'ultimo Verhoeven
Elle di Paul Verhoeven, acclamato da più parti soprattutto per la magistrale interpretazione di Isabelle Huppert, si interroga in primis sulla condizione dell’uomo borghese, e lo fa in modo alquanto radicale e spietato. In particolare, il film dirige lo sguardo sul ruolo che la violenza può giocare all’interno di quella placida ma costruita, sicura ma precaria ‒ perché sempre in bilico ‒ dimensione, così nota e familiare alla maggior parte di coloro che abitano l’Occidente. Si tratta di una dimensione vissuta spesso in modo scontato e inconsapevole; da qui la salutare proposta del regista, volta a mettere in luce i punti in ombra del nostro mondo. Ed è proprio quando il personaggio di Patrick, amabile vicino e “diabolico” stupratore, afferma di comportarsi in modo violento per necessità che lo spettatore è posto nel momento di verità del film. Verhoeven è molto abile nel mettere in scena la forza violenta che interviene a distruggere l’ordine borghese, il mondo entro cui si svolge la vita di Michèle Leblanc, la protagonista di Elle. Il lavoro ‒ tra compiti di responsabilità e scabrosi videogiochi; capaci di assorbire in una dimensione astratta, sublimandoli, violenza, erotismo, avventura ‒, l’esigente amante ‒ un uomo senza fibra ai cui stimoli Michèle risponde senza entusiasmo e al quale finisce per abbandonarsi perinde ac cadaver ‒, la madre ‒ grottesco esempio di tentativo fallito di perpetuare l’eterna giovinezza ‒, il figlio ‒ ingenuo, indolente e maldestro ‒, la compagna del figlio ‒ viziata e isterica artista che vive in una indefinita comune ‒, l’ex-marito ‒ frustrato e insignificante ‒, la casa in un quartiere ricco, le regole del buon vicinato, i colleghi, le automobili, le convenzioni, le infinite cene con amici e parenti ‒ la cui noia non viene vinta nemmeno dal malore esiziale della madre: tali momenti fuori dal tempo sembrano capaci di intercettare, alla stregua dell’ennesimo videogioco, ogni evento inaspettato, ogni stacco dall’ordinario, ogni sussulto di rabbia. Questo è l’universo di Michèle; un mondo entro cui la protagonista si muove con algido distacco, quasi sapendo di essere consegnata per natura ‒ per necessità, dunque ‒ altrove.
Ed eccola irrompere, fatale e spietata, la necessità ‒ nel senso forte di ciò che è e non può non essere. Essa assume i sembianti di Patrick, colui che si fa portatore di una violenza etimologicamente diabolica: la violenza di ciò che separa dall’ordinario, lo squarcio che rivela lo stra-ordinario. Non a caso, di tanto in tanto, si ode la musica diegetica della colonna sonora di Trainspotting, portandoci alla mente un manipolo di segregati per eccellenza: gli eroinomani che rifiutano il rassicurante decalogo dell’impiegato borghese. La violenza, rappresentata dal regista di Elle nella forma dello stupro ‒ forma qui non ostentata con compiacimento estetico, ma preservata nel suo debordante e disturbante mistero ‒, distrugge e sovverte la scansione, tutta borghese, dell’esistenza della protagonista. Nonostante la freddezza che contraddistingue Michèle, sembra che la rabbia e il desiderio di vendetta, questa volta, siano in lei reali e autentici. Emozioni e sentimenti non vengono racchiusi, ora, in una dimensione astratta e lontana della realtà: consegnano, anzi, la protagonista a un’esperienza piena della propria esistenza, carica di sgomento e dolore ma, nel contempo, vivida e reale. Le indagini per scoprire l’identità dello stupratore, affidate a un genietto dell’informatica, falliscono, e finiscono per mettere proprio il povero sventurato, peraltro infatuatosi di Michèle, miseramente nei guai ‒ e tale circolarità è segno dell’andamento programmatico che contraddistingue la dimensione astratta del mondo borghese, del lavoro e della vita inautentica della protagonista. La necessità dello sconvolgimento è talmente originaria che la vittima, Michèle, incuriosita e rapita, seduce il suo stupratore ‒ forse avvertendo la carica dirompente della violazione ‒, quando ancora non ne conosce l’identità.
Successivamente alla rivelazione del volto di Patrick, i due prolungano e diluiscono ‒ ma forse fissano e potenziano ‒ gli effetti della violenza in un rapporto perverso in cui il carnefice si confonde con la vittima e la vittima si identifica con il carnefice. Risuona qui, inconfondibile, il tema de Il portiere di notte di Liliana Cavani: la libertà si dà, per i due amanti, all’interno di un nesso gerarchico e la relazione erotica di carnefice e vittima conduce entrambi a segregarsi, fin dentro la morte, dal consorzio umano. Ma se nel capolavoro della Cavani la gerarchia, fissata sul fatto storico, era ancora composta e stratificata, nel film di Verhoeven il nesso fatale risulta scomposto e indifferenziato, a tal punto che Michèle e Patrick ci appaiono alla stregua di un’endiadi separata dal resto dei personaggi; vittima e carnefice complicati in un unico punto nero che macchia la tela della rappresentazione borghese, in modo indelebile e pericolosamente seducente. La necessità della violenza, per la protagonista, è davvero un fatto originario. Si tratta della stesso impeto lacerante che animò la mano del padre, armandola contro bambini innocenti e contro animali altrettanto innocenti. In uno scempio totale dell’innocenza che porta il marchio del caotico, dell’irrazionale e dell’indifferenziato. Al saluto che l’uomo di fede portava ai suoi vicini, scandito da una liturgica serialità, si sostituisce il magma della violenza, l’effetto di una forza ctonia entro cui qualsiasi ordine viene sconvolto e risolto. Ecco ancora ‒ o ancor prima di Michèle ‒ l’impeto stra-ordinario della violenza che sconvolge la dimensione dell’ordine borghese: la necessità della sovversione, ab origine, stuprò la fede e la mente del padre di Michèle. Una tale necessità appare sempre misteriosa, disumana e incomprensibile agli occhi dei personaggi, i quali, da quanto ci è dato sapere, finiscono più per viverla che spiegarla ‒ essendo forse insondabile la scaturigine prima delle logiche estreme di dominio.
Il rapporto che si instaura tra padre e figlia, secondo una filiazione del caos e della violenza che lacera l’esistenza borghese, può facilmente rimandare a Dogville di Lars von Trier. Tuttavia, se in quest’ultima opera l’atto finale consegna alla distruzione l’ipocrisia della città e ricompone il rapporto familiare e di clan, in Elle Michèle non riesce a ricongiungersi al padre, al modo in cui il percorso di crescita della protagonista ‒ dal cielo dell’astrazione alla concretezza del sangue ‒ e il suo rapporto con la violenza e con il suo amante-carnefice restano non pienamente riconosciuti e compiuti. Una tale incompiutezza lascia aperta la domanda se la manifestazione immediata e insondabile della violenza, come dipinta in quest’opera magistrale di Paul Verhoeven, possa valere davvero da momento risolutivamente antiborghese oppure se essa non rimanga, nella sua mancata perfezione, soltanto frammista alle dinamiche del mondo in cui si rivela, alla stregua di uno dei tanti volti di una dimensione sterminata e proteiforme. Un altro interrogativo, che potrebbe guardare con interesse a un sequel della pellicola, riguarda Vincent, il maldestro figlio di Michèle. Nell’ultima parte del film lo vediamo crescere: si occupa dell’organizzazione di una festa, mostra una furbizia inaspettata, pare diventare scaltro e attento. Arriva addirittura a colpire a morte Patrick (ma c’è da chiedersi se davvero la madre venga infine liberata dal gioco-giogo della violenza e riconsegnata all’esangue dinamismo delle astrazioni). Che in Vincent si sia dato l’inizio della manifestazione di quella stessa pericolosa forza che aveva visitato suo nonno e sua madre?