Fantozzi: fenomenologia del mostruoso
Tipi, facce, atteggiamenti, fatti, eventi di una commedia umana che, ovunque ci si volti, è dominata dalla difformità
Dunque, che cos’è il mostro? Il mostro è una manifestazione grottesca, difforme, oscena dell’Essere. Gli antichi, di fronte ai mostri, erano sempre in allerta, perché pensavano che il mostro non si limitasse ad essere ciò che sembrava ma avesse una ridondanza più ampia, più profonda. Che alludesse sempre a qualcos’altro, che rimandasse a ciò che non era visibile. Che non era ancora visibile. Il mostro come fattore di preveggenza. Monstrum – recitativa la paraetimologia classica – quia monstrat: “perché mostra” sempre qualcosa. Fantozzi è una delle più alte manifestazioni del mostruoso nel cinema italiano, che nella propria essenza più vera e importante, fu – tocca usare il passato poiché quella stagione e quel potere si sono purtroppo esauriti – cinema dei mostri. Dino Risi portò addirittura ad affiorare nel titolo questa prerogativa, nei Mostri, che esaspera un atteggiamento, un’idea guida cui molti cineasti facevano ricorso in maniera molto più sudbola e meno plateale. Ma il manifesto di ciò che vado dicendo, certo, può essere riconosciuto nel film di Risi. Chiunque osservi la realtà che lo circonda – e il cinema italiano di questo aveva fatto da sempre la propria pastura – non può fare a meno o di piangere o di ridere, captandone la natura mostruosa. Tipi, facce, atteggiamenti, fatti, eventi di una commedia umana che, ovunque ci si volti, è dominata dalla difformità. Saper restituire tutto questo è il punto nodale e focale del discorso. Non basta vedere il mostro, bisogna conoscere i mezzi per addomesticarlo e per farlo esibire di fronte agli altri. Il cinema e il circo hanno una contiguità che Fellini, tanto per fare un nome illustre, aveva compreso e messo a frutto.
Fantozzi di Luciano Salce, cioè i due primi film del ciclo – perché poi le successive filiazioni della saga di Neri Parenti sono meno interessanti e fanno sì ridere, ma entrando nella facilità della maniera e quali manifestazioni di un cinema ormai vile e per forma e per sostanza – illustrano la mostruosità chiarendo come in nessun altro film credo sia mai capitato, perché il mostro mostra, cioè dando a ciò che mettono in scena un carattere profetico, disvelatorio, universale. È già stato detto in tutte le lingue e non occorre ripeterlo oggi, che Fantozzi suscita emozioni e sensazioni che originano dalla stessa zona in cui pescava Chaplin: attinge a quella stessa polla, a quell’acqua oscura. Per questo i primi due Fantozzi sono fuori dal tempo, sono eterni, varranno sempre. Mentre quelli successivi sono tutti segnati dallo stigma del tempo, sono crocefissi agli anni Ottanta e Novanta o Duemila, e portano addosso le stigmate di una data. Certo, va anche considerato che i grandi film capitano esattamente quando devono capitare, né prima né dopo. I primi due Fantozzi arrivano nel cuore degli anni Settanta, quando il cinema italiano parla una lingua che è in grado di esprimere nel migliore dei modi la mostruosità del soggetto. Sarebbe stato impensabile che Fantozzi uscisse dieci anni prima, magari in bianco e nero. E sarebbe stato impensabile Fantozzi inventato negli anni Duemila, magari con la nuvoletta in computer grafica e senza le fondamentali prosopopee dei caratteristi mostri che fan da corona a Villaggio. Fantozzi, per universalizzarsi come ha fatto necessitava di quel cinema, di quel tempo, di quegli attori e di quel regista, perché al grande Salce va riconosciuto un merito che solitamente il Villaggiocentrismo – comprensibile – connesso al film tende invece a oscurare.
Il pubblico ride guardando Fantozzi perché vede l’esasperazione di tratti che gli appartengono, certo, ma che in quella forma iperbolica, si allontanano e si stemperano nell’assurdo. La forza di Fantozzi è, alla fine della fiera, una virtù esorcistica. La media della gente che ci circonda è ugualmente servile, codarda, pavida, profittatrice e sfigata del ragionier Fantozzi Ugo. La sua mostruosità, appunto, ci mostra noi stessi. Però l’esagerazione comica, il paradosso scava l’abisso tra noi e lui. Ci sentiamo comodi stando al di qua e possiamo continuare a guardarlo e ridere. Ridere quando va al ristorante giapponese a mangiare del vomitevole pesce crudo, perché allora aveva la faccia di una condanna e di una mostruosità inghiottire carne cruda di pesce; ridere quando sul piatto da portata viene servito Pier Ugo, il cagnetto della signorina Silvani – sprecare dieci soli secondi a riflettere su quanto sarebbe impensabile proporre uno sketch del genere in questo universo di aberrante correttezza animalista; ridere quando la figlia deforme di Fantozzi viene sbertucciata dai capi facendole fare la scimmia appesa all’attaccapanni – altro azzardo che fuori da quel tempo e da quel cinema sarebbe stato impossibile. Quindi, è da tornare a ripeterlo: Fantozzi è stato concepito in quel tempo e non avrebbe potuto, per riuscire come è riuscito, venir concepito se non lì, se non allora, se non così. Villaggio, riflettendo sul quarantennale di Fantozzi (A.D. 2015) andava dicendo, esplicitando, quanto era implicito: che siamo tutti Fantozzi e che in questa “Italia di merda” – e intendeva tanto più di merda di quanto non fosse quella del 1975, con politici bifolchi come succedanei di Aldo Moro e Papa Francesco al posto di Paolo VI – nessuno è più felice, che la posizione dell’osservatore coincide ormai con quella dell’osservato. Ed era più che probabile avesse ragione. L’abisso si è richiuso. Il mostro non è più riflesso di uno specchio deformante, ma è riflesso e basta. Il film di Salce si è compiuto nella realtà, perfettamente, a mezzo secolo dalla sua nascita.