Due attese
Due attese è un oggetto narrativo strano, un’opera che spiazza anzitutto per via dei tempi narrativi stranissimi, di una dilatazione estrema che arriva quasi a dare un senso di immobilità. Se al posto di Maurizio Lacavalla in copertina avessi trovato il nome di Giorgio De Chirico, quel Giorgio De Chirico, mi sarei potuto lasciar convincere, almeno a una prima lettura, del ritrovamento di un’opera perduta in cui il maestro si è cimentato con il fumetto poco prima di morire. La dimensione, a livello grafico, è proprio quella, c’è tutta la sensazione di una grande tensione espressiva sospesa in un’atmosfera profondamente metafisica.
Il tratto, poi, ricorda tanto gli anni ’70 con un segno grafico a metà tra l’Alberto Breccia dei Miti di Cthulhu e il Dino Buzzati del Poema a Fumetti, con un effetto retrò virtuoso che ricrea la sperimentazione di anni in cui gli artisti schiacciavano l’acceleratore nel testare le potenzialità espressive di un modo di fare a metà tra l’onirico e il lisergico. La scrittura, come nei migliori fumetti realizzati da artisti completi, lavora in forte sinergia con i disegni, raccontando una storia costruita per lo più sui non detti, sulle attese e sui silenzi, una narrazione di cui si rischia di perdere molto limitandosi a una sola lettura. Due attese, infatti, ha la caratteristica di essere una lettura impegnativa non tanto per contenuto, quanto per la necessità di essere letto e riletto con calma e prendendosi il tempo per farlo, per lasciar sedimentare le suggestioni e assimilarle con calma.
Due attese appartiene a un altro tempo e, se ricopertinato in un tentativo di truffa a regola d’arte, potrebbe tranquillamente passare per uno di quei volumi di Milano Libri che si sarebbero potuti trovare in libreria decenni fa. Lo storytelling è quello, profuma di carta vecchia e di storie che ai disegni lasciavano tanta parte della responsabilità di raccontare dando spazio a tutto quello che eccede la parola scritta.